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Il Sudan dopo Bashir, morto un regime se ne fa un altro

A Khartoum, dopo il colpo di Stato dell'11 aprile, che portò al rovesciamento della sanguinaria dittatura di Omar al Bashir, i militari avevano promesso una transizione verso la democrazia. Così non è stato. E la repressione si abbatte sui manifestanti che protestano contro le mancate promesse. 

Esteri 06_06_2019
Scontri a Khartoum

È salito a 100 il numero dei morti in Sudan, tra i dimostranti che da settimane protestano nella capitale Khartum chiedendo democrazia. Almeno 40 cadaveri sono stati estratti dal Nilo, raccontano i medici del Comitato centrale dei medici sudanesi, schierati  con l’opposizione. L’ordine di aprire il fuoco sulla folla inerme per disperderla e liberare le strade dalle barricate è stato dato il 3 giugno dal Consiglio militare di transizione, l’organismo istituito dai militari che l’11 aprile con un colpo di stato hanno preso il potere, mettendo fine al trentennale regime del presidente Omar Hassan al-Bashir.

Quel giorno i cittadini sudanesi hanno sperato di poter finalmente vivere senza paura, in un paese libero. Nei loro primi comunicati i portavoce dei militari autori del golpe avevano rassicurato i connazionali e la comunità internazionale promettendo giustizia, rispetto dei diritti umani, lotta alla corruzione, libera costituzione di partiti politici e, al termine della transizione prevista in due anni, un pacifico trasferimento del potere tramite elezioni libere e trasparenti.

Invece le Forze speciali paramilitari mandate contro i civili dal Consiglio militare di transizione altro non sono che i Janjaweed, le terribili milizie arabe a cavallo che per anni, a partire dal 2003, hanno seminato terrore e morte nel Darfur, finanziate e armate dal governo per “liberare” la regione dalle comunità agricole di origine africana nell’ambito del progetto di arabizzazione perseguito da al-Bashir, costato in Darfur 300.000 morti, secondo stime ufficiali, e più di 2,7 milioni tra sfollati e rifugiati, dopo che nelle regioni meridionali del paese, ora Sudan del Sud, aveva provocato quasi due milioni di morti e quattro milioni di profughi.

Janjaweed significa “diavoli a cavallo”. Dopo un loro attacco a un villaggio, non restava più niente e nessuno: incendiavano le abitazioni, uccidevano gli uomini, violentavano le donne, rapivano i bambini. La ferocia delle stragi compiute dai Janjaweed nel Darfur su mandato di al-Bashir hanno meritato al presidente sudanese nel 2009 l’incriminazione della Corte penale internazionale per crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. Il comandante delle Forze speciali Mohammed Hamdan Daglo, uno dei capi dei Janjaweed, è stato nominato vice capo del Consiglio militare di transizione.

A riportare quasi subito per le strade la popolazione sudanese è stata l’evidenza, a pochi giorni dal golpe, che, nonostate le dichiarazioni rilasciate, un nuovo regime si stava sostituendo al precedente, salvando oltre tutto molti vecchi esponenti politici. Sono iniziate trattative tra il Consiglio militare e i rappresentanti dei dimostranti riuniti nell’Alleanza per la libertà e il cambiamento, sempre più tese, mentre la repressione delle proteste provocava le prime vittime. Nei giorni scorsi tuttavia era stato raggiunto un accordo che portava a tre anni il periodo di transizione al governo civile, su richiesta dell’Alleanza secondo cui la rete di rapporti del precedente regime è così consolidata da richiedere tempo per essere smantellata e consentire di arrivare a elezioni libere. Nel frattempo doveva essere istituito un nuovo Consiglio sovrano sulla cui composizione però non è stato trovato un accordo perché i militari ne rivendicano la maggioranza e così pure l’Alleanza. Inoltre il Consiglio militare ha espresso molte riserve sulle richieste dell’Alleanza e sul fatto che i suoi esponenti non abbiano mai fatto accenno alla fonte della legislazione che secondo i militari deve essere la shari’a, la legge islamica.

La situazione è precipitata il 3 gìugno quando le Forze speciali hanno aperto il fuoco sui dimostranti. Il giorno successivo il capo del Consiglio militare di transizione, il generale Abdel Fattah al-Burham, ha rilasciato un comunicato trasmesso dalla televisione di stato annunciando di aver deciso di “interromperre i negoziati con l’Alleanza per la libertà e il cambiamento e di aver annullato tutti gli accordi presi in precedenza”. Inoltre ha detto che le elezioni si svolgeranno entro nove mesi, “sotto la supervisione regionale e internazionale”. 

L’Unione Africana ha condannato la violenza e ha raccomandato agli altri paesi di non intervenire. Ma l’Egitto, gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita sostengono i militari. Questi ultimi due hanno già consegnato al Sudan 500 milioni di dollari, parte di un contributo di tre miliardi promesso a sostegno dell’economia del paese. È indicativo il fatto che il 24 maggio Mohammed Hamdan Daglo si è recato in Arabia Saudita dove ha incontrato il principe Mohammad bin Salman. È noto che il capo delle Forze speciali è benvenuto nel regno saudita a causa del suo sostegno alla guerra contro i ribelli Houthi in Yemen.

Il 4 giugno il Consiglio di Sicurezza si è riunito a porte chiuse per discutere la crisi. Cina e Russia hanno messo il veto a una dichiarazione di condanna dei leader militari per la strage di civili. Sembra che inoltre la Russia abbia insistito sul fatto che il Consiglio di sicurezza non si pronunci finchè non l’avrà fatto ufficialmente l’Unione Africana. Nelle ore successive otto paesi europei tra cui l’Italia hanno invece pubblicato un comunicato in cui “condannano i violenti attacchi ai civili in Sudan da parte dei servizi di sicurezza”.

Il 13 maggio era sembrato un segnale positivo che il procuratore capo avesse incriminato al-Bashir e altre persone per i dimostranti morti durante le proteste che hanno preceduto il colpo di stato dell’11 aprile.