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VIGILIA DEL VOTO

Il referendum non serve a sventare il rischio-Italia

Si parla molto dei rischi che correrà l'Italia in caso di vittoria del No al referendum. Ma il rischio che corre il Bel Paese è dovuto a cause che il referendum non sfiora nemmeno: crescita zero, debito fuori controllo, crisi delle banche locali e inverno demografico. O si affrontano o sarà crisi. Quella vera.

Editoriali 30_11_2016
Storica copertina dell'Economist

I giorni, anzi le settimane, che hanno preceduto il referendum costituzionale sono state contrassegnate da una forte turbolenza non solo a livello politico, ma anche sui mercati finanziari e nei giudizi interni ed esterni degli operatori politici ed economici.

Si è prospettata da più parti, in particolare sul fronte dei commentatori esteri, la possibilità che l'Italia si ritrovi nella situazione dell'estate del 2011 quando lo spread si avvicinó pericolosamente a quota mille segno di  una crescente sfiducia dei mercati finanziari verso la sostenibilità dell'enorme debito pubblico italiano. Anche il premier Matteo Renzi ha peraltro più di una volta evocato quella situazione sostenendo che la vittoria del No potrebbe portare all'esigenza di un governo tecnico, in pratica come quello guidato da Mario Monti proprio nell'autunno del 2011. La prospettiva evocata da Renzi è naturalmente legata al riemergere di quel rischio-Italia che periodicamente diventa di attualità e viene immancabilmente cavalcato dalla speculazione finanziaria interna e internazionale.

Si potrebbe forse timidamente dire che una parte del rischio-Italia è causata proprio da chi dice di volerlo evitare: se Renzi non avesse legato le sorti del governo a quelle del referendum la consultazione popolare avrebbe potuto restare nell'ambito della normale dialettica politica. Ma così non è stato e le prospettive sono ora quanto mai incerte. Non solo sull'esito del referendum, quanto sulle conseguenze a medio-lungo termine del voto popolare. In effetti il Si e il No hanno un elemento in comune. La vittoria dell'uno o dell'altro non risolve nessuno dei problemi economici sul tappeto, ma semplicemente evita che si creino problemi del tutto nuovi. 

Che cosa è infatti il rischio-Italia? In sintesi si tratta di almeno quattro problemi strettamente collegati. 1) L'Italia è un paese che non è più capace di crescere. Da vent'anni la produttività è ferma. Il prodotto interno lordo non è ancora risalito ai livelli di prima della crisi. L'occupazione stenta a ripartire nonostante i forti sussidi pubblici e gli sgravi contributivi; 2) il debito pubblico continua ad aumentare ed è al terzo posto nel mondo dopo Stati Uniti e Giappone che hanno tuttavia economie ben più grandi della nostra; 3) il sistema bancario è complessivamente solido, ma con molti elementi di fragilità, soprattutto per alcuni istituti che hanno vissuto all'ombra dei poteri politici  locali, come il Monte dei Paschi di Siena, Venetobanca e la Popolare di Vicenza; 4) ultimo, ma non meno importante, l'Italia è un paese demograficamente in declino, in cui nascono la metà dei bambini rispetto a quarant'anni fa, in cui i giovani al Nord emigrano e al Sud si spostano al Nord.

Tutti questi elementi hanno trovato fino ad ora un insieme di circostanze favorevoli che hanno evitato l'avanzare di una vera e propria crisi economica o sociale. Il debito pubblico non ha creato tensioni grazie ai tassi di interesse vicino allo zero per effetto della moneta unica e della politica della Banca centrale europea (lo ricordino quanti propongono l'uscita dall'euro!). La disoccupazione, soprattutto giovanile, è diventata solo in piccola parte un dramma sociale (pur rimanendo sempre un dramma personale) grazie ai trasferimenti interni in un sistema delle famiglie ancora coeso e solidale. Il sistema bancario ha saputo difendersi grazie ad una strategia di sistema che ha fatto sì che gli istituti più forti aiutassero quelli più deboli per evitare il diffondersi della sfiducia. L'immigrazione ha avuto un effetto positivo nel sostenere la domanda interna e l'occupazione nelle fascia medio-basse.

L'esito del referendum affronta o risolve qualcuno di questi problemi? Il giudizio potrà venire solo tra qualche anno e molto dipenderà, più che dalla vittoria del Si o del No, dai comportamenti che avranno le forze politiche di fronte al nuovo scenario che si verrà a creare. Parole come stabilità, governabilità, rinnovamento, che sono state i cavalli di battaglia del Si, dovranno essere riempite di contenuti, di programmi operativi, di quelle scelte strategiche che sono mancate negli ultimi anni: un vero taglio della spesa pubblica, una vera riduzione delle tasse, una vera semplificazione degli oneri sulle imprese. È allo stesso modo se vinceranno i sostenitori del No, dovranno farsi carico nella concretezza della politica a sostenere in tempi brevi il raggiungimento degli stessi obiettivi attraverso una nuova volontà di costruire e di collaborare.

Il rischio-Italia si potrà tenere sotto controllo solo se si riuscirà a passare dalla logica dello scontro a quella del confronto, dalla logica della conquista del potere alla logica di un servizio al bene comune. La speculazione finanziaria potrà continuare a fare il suo corso, ma potrà fare meno danni se si toglieranno le incertezze, la sfiducia, il "tanto peggio tanto meglio" che ha caratterizzato l'ultima fase del dibattito politico. 

Sarebbe bello se la politica dimostrasse che possono essere smentiti i vecchi, non infondati, luoghi comuni: che un accordo non è necessariamente un "inciucio", che si puó fare una politica che per dare a qualcuno non tolga a qualcun altro, che si possono veramente realizzare misure che diano fiducia ai giovani e quindi alla ricerca, all'innovazione.