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GENOCIDIO 1915-2015

Il Padre, occasione sprecata per la memoria degli armeni

Il Padre, di Fatih Akin, avrebbe potuto essere un caso più unico che raro di memoria del genocidio degli armeni. Ma il regista turco-tedesco la spreca, limitando il dramma storico alla sola prima parte del film e riservando il resto ad un road movie di ricerca di cui si perde anche il senso. 

Cinema e tv 12_04_2015
Il Padre

Occasione sprecata quella di Fatih Akin con Il Padre, film presentato lo scorso settembre durante la 71esima Mostra del Cinema di Venezia con il titolo originale The Cut e con protagonista Tahar Rahim. Il racconto sul genocidio degli armeni, avvenuto per mano dell’impero ottomano nel 1915, è arrivato nelle sale italiane in questi giorni ma convince solo per metà.

La storia si apre a Mardin, piccolo paesino della Turchia, dove il fabbro cattolico Nazaret Manoogian (un nome chiaramente non casuale), vive una vita tranquilla insieme a sua moglie e alle due figlie gemelle, Arsinee e Lucinee. Il male prende piede all’improvviso, durante la Prima Guerra Mondiale, quando le truppe turche deportano tutti gli uomini armeni in un campo nel deserto, costringendoli a lavorare alla costruzione di una strada. Ridotti in schiavitù, gli armeni sono vittime di soprusi e crudeltà che culminano con la drammatica scena madre del film, che dà il senso anche al titolo, dove l’intero gruppo di prigionieri viene crudelmente giustiziato da un banda di banditi. 

Nazaret è l’unico sopravvissuto a questo dramma. A salvarlo, uno dei turchi della banda che, dopo averlo tramortito e abbandonato in mezzo a tutti gli altri con mani e piedi legati, torna a soccorrerlo il giorno successivo. Proprio in questo punto sembra concludersi la prima parte del film, la migliore e forse anche  la più toccante. Commovente la scena in cui Nazaret, ormai muto a causa del taglio alla gola che li ha reciso le corde vocali, al risveglio, si gira verso uno dei suoi compagni e, impossibilitato a dar voce al suo dolore, avvicina il suo volto a quello dell’uomo morto, in segno di rispetto. 

Ma tutto questo non basta a giustificare la seconda parte di un film che si fa monotono, ripetitivo, inverosimile e che si trascina stancamente per 138 minuti. Quella che poteva e doveva essere una testimonianza storica, su uno degli eventi più drammatici dei primi anni del ‘900, si trasforma nel personale viaggio di un uomo che cerca in tutti i modi di ricongiungersi con la sua famiglia. Nel viaggio di ritorno verso casa, Nazaret vede solo il Male, scopre che nulla e nessuno è sopravvissuto alle torture degli ottomani, incontra sua cognata che lo implora di ucciderla per porre fine alle sue sofferenze, e tutto serve a seminare le basi di un rifiuto nei confronti di un Dio che non è più certezza e che viene banalmente etichettato come crudele. 

Solo e chiuso in se stesso, Nazaret trova rifugio da un artigiano di saponi e qui comincia una nuova vita, fino a quando non scopre che le sue figlie sono ancora vive. Il viaggio ricomincia e l’uomo attraversa mari, monti e continenti nella disperata ricerca delle due giovani donne. Il film si trascina fino al 1923 e spinge Nazaret ad attraversare la Siria, il Libano, Cuba, la Florida e Minneapolis. Il tutto assume una dimensione che rasenta il ridicolo con l’unico protagonista sullo schermo che è sempre a un passo dalle figlie, salvo poi scoprire che si sono già spostate in un altro luogo. L’orrore del genocidio sopravvive solo come lontano ricordo nella mente del protagonista e dello spettatore e lascia subito spazio a una vicenda diversa, quella della ricerca, che diviene ossessione e missione. Ma è proprio questo viaggio l’aspetto più debole di un film che si (e ci) trascina lungo un percorso sempre più tedioso, con protagonista un unico personaggio con cui è persino difficile empatizzare. 

L’aspetto storico dell’intera vicenda passa totalmente in secondo piano, divenendo mero contorno di una storia del tutto diversa, il male assoluto che Akin vuole mostrare viene banalizzato e il regista non si cura di fornire un punto di vista sulle ragioni insensate di questo genocidio. Il racconto, inoltre, diviene ripetitivo e soporifero, la regia debole ed elementare.

Il Padre, film che chiude una trilogia sull’amore, la morte e il demonio cominciata con La sposa turca e con Ai confini del paradiso, delude su tutti i fronti. A rendere insensata la vicenda è anche la scelta del regista di far recitare gli armeni con un accento inglese, una decisione motivata dalla voglia di rendere il film più internazionale possibile, ma che spiazza e decontestualizza lo spettatore fin dalle primissime battute. 

Per una volta, difatti, chi avrà modo di vedere il film doppiato riuscirà ad apprezzarlo forse più di chi ha visto l’originale. Il risultato è un film narrativo vuoto che non dice nulla né sulla dimensione storica dell’evento né su quella etica, un film forse troppo ambizioso e complicato dove il sincero desiderio di mostrare l’orrore di cui furono vittime gli armeni evapora subito dopo la prima mezz’ora e si perde nel ritratto troppo semplicistico e intimista di un eroe in cerca delle figlie. Un vero peccato perché da Akin, regista di origine turca nato e cresciuto in Germania, ci si sarebbe aspettati qualcosa in più.