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IL CASO AVE MARIA A MACERATA

Il fastidio e la ragione

La dittatura delle emozioni crea una società di soggetti fragili, chiamati ad assecondare costantemente le proprie reazioni emotive. E, dunque, pronti ad assoggettarsi a tutti quei poteri capaci di creare un ambiente “confortevole”, al riparo dalle emozioni negative. Di nuovo sul caso Ave Maria a Macerata

Editoriali 22_10_2017

Le emozioni non si discutono. Si provano. E basta. Quando mi arrabbio con il mio capo, quando sono in ansia per un esame, quando avverto paura camminando in un vicolo buio, non c’è nessun argomento che possa farmi desistere dal provare – in quelle precise circostanze – rabbia, ansia o paura. 

Eppure, si può e si deve discutere sulle conseguenze delle emozioni e sulla loro gestione – sia a livello personale, che a livello sociale. Se non uscissi più di casa la sera per la paura di camminare nelle strade buie, se la mia paura fosse l’unico criterio in base al quale decidere cosa fare o non fare di sera… beh, qualcosa di cui discutere ci sarebbe. 

Si tratterebbe, inoltre, di mettere in discussione la mia gestione della paura e delle sue conseguenze. Il problema di uscire o meno di sera per la paura sarebbe primariamente un mio problema. Non un problema dello Stato o della società. Ad esempio, non potrei obbligare lo Stato ad illuminare a giorno ogni strada (spendendo milioni di euro) affinché io possa non provare paura – ché altrimenti la paura stessa mi condannerebbe a restare in casa. Ovviamente, sarebbe cosa ben gradita se lo Stato e la società mi aiutassero in qualche modo nella mia fragilità. Ciò non significa, tuttavia, che io abbia il diritto di imporre allo Stato o alla società di fare i conti con la mia paura – di fatto assecondandola.

Queste semplici e banali osservazioni sono tuttavia messe tra parentesi allorché si discute del “fastidio” e del “turbamento” provato da certe persone in certi contesti pubblici. Ad esempio, nel recente caso dell’Ave Maria recitata a Macerata in un’aula universitaria, un’associazione studentesca ha “denunciato” che, di fronte alla preghiera, alcuni studenti si sono sentiti in imbarazzo, altri hanno assecondato la docente per la paura di essere giudicati male – e magari per la paura dell’esame. 

Resta da capire se queste constatazioni emotive corrispondano a verità. Eppure, se anche corrispondessero a verità, ci sarebbe molto da riflettere sulle loro implicazioni. Al di là del solito discorso sulla “laicità” dei luoghi pubblici, il messaggio che è passato, molto chiaramente, è il seguente: chiunque compia gesti o esprima opinioni che potrebbero generare in alcuni soggetti reazioni emotive negative (paura, imbarazzo, etc.) deve semplicemente rinunciare a quei gesti e all’espressione di quelle opinioni. Prega, insomma, purché tu lo faccia in una chiesa senza dar fastidio ad alcuno.

In questi casi, si assume senza tanti problemi non solo che le emozioni non si possano discutere, ma che debbano anzi fungere da unica guida del comportamento di chi le prova. Nonché di ogni possibile comportamento di chi si trovi nei paraggi. Una società fondata sulla dittatura delle emozioni (di quelle reali o di quelle immaginate) non può che andare incontro a due indesiderabili conseguenze.

In primo luogo, le emozioni sono al di là del bene e del male, per così dire. Pertanto, allorché si vorrà criticare una certa posizione culturale, basterà dire che quella posizione culturale genera (o può generare) una qualche emozione negativa in qualche membro della società. Non serviranno più argomenti. Basti considerare questo fatto: se fino a dieci o venti anni fa si discuteva della laicità dello Stato in termini più o meno razionali (ad esempio considerando la presenza del crocifisso a scuola), ora si parla della laicità dello Stato nei termini del “fastidio” provato da qualche studente dinnanzi ad un’Ave Maria.

In secondo luogo, la dittatura delle emozioni è, appunto, una dittatura. Essa crea una società di soggetti fragili, chiamati ad assecondare costantemente le proprie reazioni emotive. E, dunque, pronti ad assoggettarsi a tutti quei poteri (finanche le associazioni studentesche!) capaci di creare un ambiente “confortevole”, al riparo dalle emozioni negative. Salvo poi riversare il proprio rancore in Rete come perfetti “leoni da tastiera”.