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AUTORI DEL '900/CALVINO

Il dramma della libertàdi fronte all’incontro

Candidato del PCI e scrutatore al seggio, al Cottolengo negli occhi di una suora intravede la beatitudine. E si domanda: esiste davvero?

Cultura 03_09_2011
Italo Calvino

 

Italo Calvino (1923-1985) è uno degli scrittori italiani del Novecento più letti nelle scuole e più venduti nelle librerie. Nella scuola primaria di lui si propongono spesso le novelle (chi non ricorda la raccolta Marcovaldo) mentre nella scuola secondaria si sottopone all’attenzione dei ragazzi la trilogia degli antenati (Il cavaliere inesistente, Il visconte dimezzato, Il barone rampante) o i romanzi dedicati alla Seconda guerra mondiale e alla lotta partigiana (Il sentiero dei nidi di ragno e Ultimo viene il corvo). La sua sterminata produzione, testimone di una vena di grande affabulatore e di un vivo interesse per lo sperimentalismo nella narrazione, risente dei dibattiti aperti negli anni Cinquanta e Sessanta (La speculazione edilizia e La nuvola di smog) oltre che delle suggestioni dello strutturalismo e della semiologia (Il castello dei destini incrociati) e del fascino delle scienze (Le cosmicomiche, Ti con zero, Palomar). Se il testo Italo Calvino racconta l’Orlando furioso rivela l’amore che l’autore ha per il mondo cavalleresco e per il capolavoro ariostesco, in Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979) Calvino si sofferma sulla riflessione letteraria (metanarrativa) ipotizzando differenti incipit per un romanzo.

Negli anni in cui va di moda l’intellettuale engagé, specialmente di sinistra, sia in Europa (si pensi a Camus o a Sartre) sia in Italia (basti citare Moravia), Calvino è iscritto al Partito Comunista. In seguito ai gravi fatti di Budapest (1956) il 7 agosto 1957 Calvino si dimette dal PCI scrivendo: «Cari compagni devo comunicarvi la mia decisione ponderata e dolorosa di dimettermi dal partito […]. Credo che nel momento presente quel particolare tipo di partecipazione alla vita democratica che può dare uno scrittore e un uomo d'opinione non direttamente impegnato nell'attività politica sia più efficace fuori dal Partito che dentro».

Proprio in quegli anni accade qualcosa che tocca profondamente la sua persona. Nel 1953, anno di elezioni politiche, Calvino è segretario di seggio al Cottolengo e ci dà testimonianza di quanto gli accade in un testo datato 1963, che non è certo tra i più noti e pubblicizzati dello scrittore: La giornata di uno scrutatore. «Posso dire che, per scrivere una cosa così breve», racconta Calvino nella prefazione, «ci ho messo dieci anni, più di quanto avessi impiegato per ogni altro mio lavoro. […] Ero candidato del Partito Comunista […]. Così assistetti a una discussione in un seggio elettorale del Cottolengo tra democristiani e comunisti sul tipo di quella che è al centro del mio racconto (anzi, uguale, almeno in alcune battute). E fu lì che mi venne l’idea del racconto, anzi il suo disegno ideale era già allora quasi compiuto come l’ho scritto adesso: la storia d’uno scrutatore comunista che si trova lì, ecc. Provai a scriverlo, ma non ci riuscivo. Al Cottolengo ero stato pochi minuti appena […]. L’occasione di farmi nominare scrutatore al Cottolengo mi si presentò con le amministrative del ’61».

Calvino si cela sotto le vesti del protagonista Amerigo Ormea, intellettuale, pessimista e un poco cinico che si sente adulto, come  chi sa già e conosce già e non ha, quindi, tempo per lasciarsi sorprendere: «Nella politica come in tutto il resto della vita, per chi non è un balordo, contano quei due principi lì: non farsi mai troppe illusioni e non smettere di credere che ogni cosa che fai potrà servire». Comunista, considerato «elemento preparato e di buon senso», ora viene fatto scrutatore proprio in un seggio di un grande istituto religioso, il Cottolengo, chiamato anche la piccola casa della Divina Misericordia, un enorme ospizio, una città nella città, fondata tra il 1832 e il 1842 da un prete per accogliere i minorati e i deformi, quelle creature nascoste «che non si permette a nessuno di vedere». Amerigo si reca al Cottolengo quasi investito di un compito «nella parte d’un ultimo anonimo erede del razionalismo settecentesco», quello di verificare le truffe, scoprire i brogli e le prevaricazioni che avvengono in quell’istituzione a vantaggio del Partito democristiano.

Ebbene al seggio Amerigo si sorprende nel vedere insieme i credenti dell’ordine divino e i compagni suoi «ben coscienti dell’inganno borghese di tutta la baracca». In quel seggio elettorale lo scrutatore vede sfilare un’Italia nascosta, il segreto di tante famiglie. Quei corpi deformi sono «il rischio d’uno sbaglio che la materia di cui è fatta la specie umana corre ogni volta che si riproduce». Così, di fronte a quei poveretti, Amerigo si sorprende antidemocratico, la sua certezza di essere cresciuto con valori incrollabili comincia a vacillare: come può il suo voto di uomo intelligente e cosciente valere come quello di persone lontane dal mondo, lontane dalla democrazia, lontane dal sistema? Nel Cottolengo è, invece, evidente come l’idea di perfezione dell’uomo sia ben lungi dal possedere un benché minimo attestato di attendibilità, la carne di Adamo appare «misera e infetta». Ad Amerigo una geniale intuizione balena per la mente: lì, pur sempre Dio può salvare con la grazia quella carne limitata, la storia sembra essere restituita nelle mani di Dio; per caso il comunismo ha restituito la vista ai ciechi o fatto camminare gli zoppi? Lì, in qualche modo, ciò avviene! Queste domande, queste intuizioni non scansano del tutto l’uomo vecchio, ossia l’Amerigo che ha studiato, uomo di partito e di certezze. Eppure l’inizio di qualche cosa di sorprendentemente nuovo si fa strada nel suo animo.

Ad un certo punto accade qualcosa. Osservando le carte d’identità delle monache si rende conto di una diversità del loro sguardo. «Le monache […] posavano di fronte all’obiettivo, come se il volto non appartenesse più a loro, e a quel modo riuscivano perfette […]. La fotografia registrava quest’immediatezza e pace interiore e beatitudine. È segno che una beatitudine esiste? […] E, se esiste, allora va perseguita? Va perseguita a scapito d’altre cose, d’altri valori,  per essere come loro, le monache?».  Ancora più sorprendente è il fatto che gli idioti completi nelle loro carte di identità appaiono felici. Amerigo inizia a prendere coscienza che in lui la pretesa di essere giusto, di perseguire buoni principi e valori inappellabili ha da tempo sostituito il desiderio di essere felice e ha, per così dire, offuscato il suo animo, lo ha reso triste, dagli occhi lucidi e insensibili. Ebbene quegli idioti hanno un volto felice perché sanno a chi essere grati. Amerigo chiede: «Gratitudine a chi?».  Il presidente di seggio risponde: «A Dio nostro Signore e basta». Un uomo deformato del Cottolengo, orgoglioso delle proprie capacità e consapevole del proprio debito di gratitudine, attesta con gioia: «Io so fare tutti i lavori da me […]. Sono le suore che mi hanno insegnato. Qui al Cottolengo facciamo tutti i lavori da noi. Le officine e tutto. Siamo come una città. Io ho sempre vissuto dentro il Cottolengo. Non ci manca niente. Le suore non ci fanno mancare niente. Grazie alle suore sono riuscito a imparare. Io senza le suore che mi aiutavano sarei niente. Ora io posso fare tutto. Non si può dire niente contro le suore. Come le suore non c’è nessuno».

Allora Amerigo si chiede se questa città che ha moltiplicato le mani dell’uomo sia la città dell’uomo intero o se l’uomo in realtà valga quando non consideri mai abbastanza raggiunta la sua interezza. L’uomo vale nella consapevolezza della sua dipendenza e nella tensione del suo sguardo verso l’Ideale. Il Cottolengo diventa la prova e insieme la smentita dell’inutilità del fare, la conferma della vanità del tutto e insieme dell’importanza di ogni azione compiuta da ognuno, una potente testimonianza contro l’ambizione delle forze umane. Lì ad Amerigo appare chiaro come ogni forma dell’agire umano si modelli sulla preghiera, ogni opera che si compia abbia «solo il significato di variante dell’unica attitudine possibile: la preghiera, ossia il farsi parte di Dio, ossia […] l’accettare la pochezza umana, il rimettere la propria negatività nel conto di una totalità in cui tutte le perdite si annullano».

Di fronte alla realtà del Cottolengo Amerigo non pensa più al motivo per cui si trova lì (verificare la correttezza delle votazioni), ora gli interessa il confine dell’umano, si interroga quando un essere umano possa dirsi ancora tale. La tristezza attonita di un gigante con la smisurata testa da neonato sembra rispondergli che l’io umano è esigenza di felicità, anche se insoddisfatta. Amerigo si rende conto che di fronte a queste persone si può stare in maniera diversa. Alla vista della letizia di una suora una scrutatrice esclama: «Lei è una santa». Di fronte a questa donna Amerigo riconosce che «vivere come lei, per uno scopo universale (un ideale), sarebbe stato più naturale che vivere per qualsiasi scopo particolare e sarebbe stato possibile ad ognuno esprimere se stesso, la propria carica sepolta, segreta, individuale, nelle proprie funzioni sociali, nel proprio rapporto con il bene comune». Nel perseguire l’Ideale l’io si compie, nell’aderire ad una ideologia l’uomo sfiorisce e si intristisce. La suora ha scelto con un atto di libertà, ha identificato «tutta se stessa in quella missione o milizia, eppure - anzi: proprio per questo - restava distinta dall’oggetto della sua missione, padrona di sé, felicemente libera […]. Questo modo d’essere è l’amore […]. L’umano arriva dove arriva l’amore; non ha confini se non quelli che gli diamo». Nell’incontro con la suora Amerigo capisce meglio sé e i suoi rapporti e in lui si sviluppa un’intelligenza maggiore. Comprende l’inautenticità del suo rapporto con la fidanzata, Lia, tenuta all’oscuro di tutto, della sua passione politica, delle ragioni del suo impegno sociale. Con il passare degli anni una scontata monotonia si era impadronita del loro rapporto tanto che Amerigo non si aspettava più nulla. Non si era sorpreso neppure della notizia che la sua fidanzata era in dolce attesa. Ora, invece, gli sembra tutto chiaro: «per lo spazio di un secondo (cioè per sempre) gli sembra di aver capito». Quel secondo in cui lui ha compreso può valere un’eternità: per sempre. Ora Amerigo vuole spiegare tutto a Lia.

Quando si incontra una realtà imprevista che contraddice ogni nostra previsione e ci fa pregustare il Mistero di un mondo per noi ancora incognito, si mette in moto il dramma della libertà che può riconoscere come vero e abbracciare quanto è accaduto accompagnando così la nascita dell’uomo nuovo oppure sorprendersi solo per qualche istante per, poi, ritornare nella plumbea routine cui si era abituati con il solito sguardo cinico e disilluso.