Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Galdino a cura di Ermes Dovico
Redemptoris Custos/10

I dolori di san Giuseppe, mezzo per la gloria

La devozione dei «Sette dolori e sette gioie di san Giuseppe» aiuta a meditare su alcuni dei più grandi misteri della vita nascosta di Gesù, dalla prospettiva interiore dello sposo di Maria. Il quale patì varie infermità per diversi anni prima di morire, come racconta la venerabile Maria di Ágreda, trasmettendoci due grandi insegnamenti: come vivere la malattia e l’esercizio della carità verso gli infermi.
- SAN GIUSEPPE, UNA LUCE PER LA DSC, di Stefano Fontana

Ecclesia 19_09_2021 English Español

Parlando della “Passione” di Giuseppe (vedi qui), si è già accennato all’intensità dell’angustia interiore che il santo provò quando si accorse della misteriosa gravidanza di Maria. Si tratta del primo dei sette dolori tradizionalmente associati al padre verginale di Gesù, sulla base di altrettanti episodi narrati nei Vangeli. Da essi origina la pratica intitolata «Li septe Pater nostri de san Joseph», che comparve in appendice a un libro, datato 1536, del cappuccino Giovanni da Fano. Il religioso riferì che san Giuseppe, dopo aver salvato due frati dal naufragio, disse loro: «Io sono San Giuseppe, degnissimo sposo della Beatissima Madre di Dio, al quale tanto vi siete raccomandati (…). E ultimamente ho impetrato, dall’infinita clemenza divina, che qualunque persona dirà ogni giorno, per tutto un anno, sette Padre nostro e sette Ave Maria meditando sui sette dolori che io ebbi nel mondo, otterrà da Dio ogni grazia che sia conforme al suo bene spirituale».

Lo stesso glorioso patriarca rivelò i sette dolori, ai quali in seguito la pietà giuseppina aggiunse sette gioie. La devozione dei «Sette dolori e sette gioie di san Giuseppe» ha goduto nei secoli, fin da Pio VII, di diverse indulgenze. Una versione ufficiale si trova nell’Enchiridion Indulgentiarum (1952, pp. 341-345). Il suo valore è evidente. Essa, in modo simile alla più antica pratica in onore della «Madonna dei sette dolori», aiuta a meditare su alcuni dei più grandi misteri della vita nascosta di Gesù, assumendo la prospettiva interiore di san Giuseppe. Nello specifico si contemplano: il travaglio di fronte alla gravidanza di Maria e il gaudio per l’annuncio dell’angelo in sogno (I dolore e gioia), la nascita di Gesù nella grotta di Betlemme (II), la circoncisione di Gesù e l’imposizione del nome (III), la presentazione al tempio (IV), la fuga in Egitto (V), il timore di Archelao e il ritorno a Nazaret (VI), lo smarrimento e il ritrovamento di Gesù (VII)[1].

Questo elenco, ovviamente, non esaurisce i dolori che costellarono la vita terrena di Giuseppe, il quale fu degno padre del Redentore anche per il modo in cui visse le sofferenze. «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9, 23). Prima che Gesù trasmettesse ai discepoli questo insegnamento, che agli orecchi del mondo suona sgradito, Giuseppe lo aveva messo in pratica, conformandosi in tutto, giorno dopo giorno, alla volontà divina. Vista la sua eminente santità, non poteva essere altrimenti. Poiché le sofferenze, offerte al Padre per il Suo piano di salvezza, rendono l’uomo tanto più simile a Gesù, Giuseppe doveva essere grandemente provato.

Si è già ricordata l’importanza del patrocinio di san Giuseppe sulla buona morte (vedi qui), ma può essere ancora utile cercare di capire meglio come lui vi arrivò alla sua, di morte. I Vangeli nulla ci dicono al riguardo. Tra le rivelazioni private, di grande interesse è il racconto che fa la venerabile Maria di Ágreda († 1665) degli ultimi anni di vita del padre di Gesù. Ne accenniamo brevemente, rimandando per il resto alla sua lettura integrale, che si estende per tre capitoli della Mistica Città di Dio (cap. 13-15, Libro V). Nell’opera, che ha goduto nei secoli dei favori di diversi Papi, si legge che Giuseppe, intorno ai 52 anni, dovette abbandonare suo malgrado il lavoro manuale «perché le fatiche, i pellegrinaggi e le tribolazioni che aveva affrontato per sostentare la sua sposa e il Signore del mondo lo avevano indebolito più dell’età». Si può immaginare la prostrazione in cui dovette trovarsi Giuseppe, che non poteva più provvedere a quanto aveva di più caro, Gesù e Maria, ma doveva lasciarsi servire in tutto. Secondo la Ágreda il santo si arrese infine alle dolci insistenze della Madonna che, con il corpo verginale nel pieno del vigore e «nella perfezione naturale» (Maria, stando al racconto della venerabile, aveva allora 33 anni e ne erano passati 19 dallo Sposalizio), incominciò a lavorare più di prima, filando e tessendo.

Giuseppe, in quello stato, poté dedicarsi maggiormente alla contemplazione e all’esercizio eroico delle virtù, quali la pazienza, la rassegnazione, l’umiltà. Inoltre, per la gratitudine che aveva verso Gesù e Maria, che lo consolavano e assistevano con ogni premura nelle sue infermità, il suo cuore si infiammò di un amore così grande da superare tutti i santi, eccetto la sua sposa. La Vergine, da parte sua, vedendo il modo in cui Giuseppe affrontava il peso delle sue malattie - tra cui febbri, forti mal di testa, dolori strazianti alle articolazioni del corpo - e conoscendo soprannaturalmente i misteri del suo cuore, provò una venerazione sempre più intensa per il suo sposo. E lodava Dio per i Suoi santi disegni, che consistevano appunto nel far incamminare Giuseppe «per questa via regale» - quella della Croce - per accrescerne i meriti eterni. Questo stato di infermità lo accompagnò per otto lunghi anni, aggravandosi negli ultimi tre, quando la Vergine moltiplicò le sue cure, aiutata dallo stesso Gesù. «Non vi fu né vi sarà mai altro infermo così teneramente servito e accudito», scrive la Ágreda.

C’è qui, dunque, almeno un duplice insegnamento: l’abbandono alla volontà di Dio nella malattia e l’esercizio della carità verso i malati. Con tale esercizio, che è «una delle opere virtuose più gradite al Signore e più fruttuose per le anime», come rivelò la Madonna alla mistica spagnola, «si adempie gran parte della legge naturale di fare agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi stessi». Sono insegnamenti che le nostre società, per effetto di un crescente allontanamento dalle verità divine, stanno progressivamente dimenticando. Ma che andrebbero recuperati.

 

[1] Per recitarla si contempli un dolore (e la corrispettiva gioia) ogni giorno della settimana, nell’arco di un anno.