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GUERRA DI PAROLE

Hong Kong: Londra protegge i suoi ex sudditi dalla Cina

Gli scontri seguiti alla Marcia dell'1 Luglio a Hong Kong, culminati nella breve occupazione del Consiglio Legislativo, stanno provocando conseguenze internazionali. È infatti scontro aperto, fra Regno Unito e Cina: Londra avverte che non tollererà una repressione nell'ex colonia britannica che ora è parte della Cina.

Esteri 05_07_2019
Bandiere inglesi e cartelli di protesta di fronte al Consiglio Legislativo di Hong Kong

Gli scontri seguiti alla Marcia dell'1 Luglio a Hong Kong, culminati nella breve occupazione del Consiglio Legislativo, stanno provocando conseguenze internazionali. È infatti scontro aperto, fra Regno Unito e Cina: Londra avverte che non tollererà una repressione nell'ex colonia britannica che ora è parte della Cina.

Il Regno Unito è stato indirettamente chiamato in causa, anche considerando che i manifestanti che hanno occupato la sede del potere legislativo, hanno issato per protesta la vecchia bandiera coloniale britannica. Mentre tutto ciò avveniva in mondovisione, il ministro degli Esteri britannico, Jeremy Hunt, dichiarava il suo sostegno ai cittadini di Hong Kong e alle loro libertà da preservare. “Voglio sottolineare che il sostegno del Regno Unito per Hong Kong e per le sue libertà è incrollabile, in questo anniversario – scriveva Hunt in un tweet, l'1 luglio, cioè il 22° anniversario della restituzione dell’isola dal Regno Unito alla Cina – Nessuna violenza è accettabile, ma il popolo di Hong Kong deve preservare il diritto di manifestare pacificamente, legalmente, come centinaia di migliaia di eroiche persone hanno mostrato oggi”.

Il regime di Pechino non ha digerito questo commento. Il combinato disposto della bandiera britannica nel parlamento di Hong Kong e questi commenti del ministro degli Esteri di Londra, hanno suscitato vecchie remore anti-colonialiste. Pechino ha avvertito gli inglesi di “non interferire negli affari interni” cinesi. E l’ambasciatore a Londra ha rincarato la dose, dicendosi “sconcertato” per i commenti di Jeremy Hunt e afferma che le relazioni fra i due Paesi siano state “danneggiate” dalle sue affermazioni. Ha sottolineato che le relazioni debbano essere fondate sul “rispetto reciproco” e ha dichiarato che vi sarebbero ulteriori “problemi”, se il Regno Unito non riconoscesse la piena sovranità cinese sul territorio di Hong Kong, la sua “integrità territoriale e il principio di non ingerenza negli affari interni”. Ha poi accusato Londra di ipocrisia, perché quando Hong Kong era sotto il controllo britannico, “non c’erano elezioni, né diritto di manifestare”. Quanto alle ultime proteste, “non riguardano la libertà, sono una violazione della legge”.

Il ministro conservatore britannico, lungi dal farsi intimidire dalla reazione cinese, ha ribadito che le relazioni fra due Paesi devono essere, sì, fondate sul rispetto reciproco, ma quindi anche “sul rispetto di accordi legalmente vincolanti fra loro”. E ha ricordato che secondo il trattato del 1984, con cui il Regno Unito restituiva Hong Kong alla Cina, i diritti dei cittadini dell’ex colonia devono continuare ad essere protetti dalla Basic Law, lascito del diritto britannico.

Jeremy Hunt, intervistato ieri dalla BBC, ha ribadito il concetto. E non ha escluso l’applicazione di sanzioni alla Cina, se a Hong Kong dovesse essere scatenata la repressione. “Naturalmente, tutte le opzioni sono sul tavolo”, ha detto il ministro, affermando che, in caso di repressione, “il Regno Unito non si limiterà a inghiottire e andare avanti”, come se nulla fosse. “Al centro delle preoccupazioni del popolo è (la possibilità di perdere, ndr) quel gioiello che Hong Kong ha avuto: un potere giudiziario indipendente”.

Vi sono due modi di leggere questa guerra di parole. Il primo è quello classico della guerra commerciale. La lite fra Londra e Pechino va a sommarsi al conflitto commerciale e tariffario fra Usa e Cina. E da questo punto di vista, il ministro Hunt è stato molto imprudente, sia perché il Regno Unito non è del tutto allineato agli Usa nella sua guerra commerciale, sia perché, in vista della Brexit, il Regno Unito ha bisogno di tutti i mercati esteri, incluso quello del gigante asiatico. Appunto per questi motivi, possiamo escludere che Londra abbia difeso Hong Kong “per interessi”. Lo ha fatto certamente “per bandiera”, per salvare l’onore di ex potenza coloniale che vuole rispettare e far rispettare la parola data ai suoi ex cittadini. Ma non è solo una questione di relazioni post-coloniali fra Londra e Pechino. Il governo britannico sta cercando di porre dei paletti chiari alle mire espansionistiche del regime cinese, che considera come “terra sua” e dunque “cosa sua”, tutto ciò che rientra nei suoi confini storici. Così come Pechino reprime con durezza ogni parvenza di autonomismo nelle nazioni che ha assorbito, come il Tibet e lo Xinjiang (ex Turkestan orientale), al tempo stesso considera Taiwan come una “provincia” (e la minaccia di invasione se dovesse proclamare ufficialmente un’indipendenza che di fatto ha già) e Hong Kong come una sua area urbana. Finora il fragile velo della Basic Law ha retto, ma verrebbe squarciato dalla legge che attualmente viene contestata dai manifestanti, che includerebbe, una volta approvata, la possibilità di estradare cittadini in Cina, dalla magistratura del regime di Pechino.