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AUTORI DEL '900

Gozzano e il mistero di Dostoevskij

Nelle opere del poeta italiano si coglie la stessa tensione all'infinito dello scrittore russo.

Cultura 25_02_2012
Gozzano
Quell’uomo che era convinto fino ad un secolo prima di creare una civiltà nuova ha verificato l’inconsistenza delle proprie pretese e vive negli anni di fin de siècle il miraggio della Belle Époque, ultima illusione di spensieratezza foriera della imminente guerra. È un’epoca solo apparentemente solare, in realtà profondamente contraddittoria, ambivalente, dai forti contrasti tra i deliri superomistici dannunziani e la percezione dell’inettitudine dei personaggi sveviani, due facce della stessa medaglia su cui è impressa l’effigie dell’uomo, della sua presunzione e, ad un tempo, della sua precarietà.

Rappresentante di quest’epoca è Guido Gozzano (1883-1916), autore, tra le altre opere, de La via del rifugio (1907) e de I colloqui (1911). Nella sua poesia domina la forte componente demistificatrice da intendersi anche e soprattutto come aperta polemica con il poeta vate dell’epoca, ovvero Gabriele d’Annunzio, con la sua prosopopea e la sua retorica. Nella scrittura di Gozzano sono chiari i segni dell’attraversamento di d’Annunzio, ma evidente è anche l’inclinazione del poeta verso l’intimismo, il tono languido, l’autoironia, quasi un compiacimento nell’osservare la propria inadeguatezza alla vita e l’inettitudine. La vocazione polemica antidannunziana denuncia anche la complicità con i toni da fanciullino pascoliano, amati dal Crepuscolarismo a cui peraltro Gozzano può essere ascritto. Corazzini, poeta crepuscolare, scrive, infatti, negli stessi anni: «Perché tu mi dici: poeta!/ Io non sono un poeta./ Io non sono che un piccolo fanciullo che piange». La stessa consapevolezza e, ad un tempo, lo stesso compiacimento si avvertono nei personaggi di Gozzano, uomini che non vivono, che si sentono estranei alla vita e a se stessi, incapaci di aderire alla realtà e alle sollecitazioni che la vita propone. Se è vero che la giovinezza è caratterizzata dall’entusiasmo del cuore, giustamente la loro condizione esistenziale può essere paragonata a quella della vecchiaia.

Così, ne I colloqui il poeta scrive: «Venticinqu’anni!... Sono vecchio, sono/ vecchio! Passò la giovinezza prima». La vita è un «bel romanzo […] non vissuto», ma solo raccontato: «Non vivo. Solo, gelido, in disparte,/ sorrido e guardo vivere me stesso». Sembra esattamente la condizione opposta rispetto a quella descritta da Ada Negri nella poesia «Mia giovinezza», in cui lo scorrere degli anni porta con sé, con le rughe, anche un rinnovato entusiasmo e una consapevolezza più matura dell’abisso di vita dell’uomo. Celebre personaggio è l’avvocato di «La signorina Felicita, ovvero la felicità», che vagheggia una fuga dalla propria vita di sempre e dalle donne che l’hanno sempre accompagnato alla ricerca di un’autenticità che non ha mai trovato. In fondo, questo vagheggiamento è, però, un sogno irrealizzabile, l’amore è una finzione senza speranza, una momentanea sospensione dalla vita abituale. L’avvocato vuole e non vuole, rifiuta un mondo di falsità e di convenzioni senza saper davvero approdare ad una vita differente e più vera. Esemplare è pure Totò Merùmeni, che «ha venticinque anni, tempra sdegnosa,/ molta cultura e gusto in opere d’inchiostro,/ scarso cervello, scarsa morale, spaventosa/ chiaroveggenza: è il vero figlio del nostro tempo. […] Gelido, consapevole di sé e dei suoi torti,/ non è cattivo. È il buono che derideva Nietzsche. […] Egli sognò per anni l’amore che non venne».

Anche in questi testi di Gozzano si assapora un certo gusto raffinato, proprio dell’Estetismo, che mostra l’attraversamento di d’Annunzio e, al contempo, il suo superamento (Montale). Si chiude con lui quella nuova fase della poesia italiana, tra Ottocento e Novecento, che si era aperta nel segno del Decadentismo pascoliano e dannunziano (Grosser). Sarebbe riduttivo leggere Gozzano soltanto lungo queste linee interpretative, per lo più derivanti dalle poesie più note. Non esiste nella sua opera solo la nota languida, triste e malinconica. Si avverte anche quella speranza che scaturisce dal guardare la realtà e leggervi una presenza. Si colgono, così, talvolta anche in Gozzano quella contradditorietà e profondità dell’umano che il lettore avverte anche nelle opere di Dostoevskij, di pochi decenni prima, quella tensione all’ideale e all’Infinito e, nel contempo, quel senso di pochezza e di precarietà che si assaporano ne I fiori del male di Baudelaire.

L’uomo ridicolo di Dostoevskij (protagonista del racconto Sogno di un uomo ridicolo) vorrebbe suicidarsi, quando incontra una povera bambina. Ritornato a casa, si accorge di aver provato compassione per lei e, mentre i propositi suicidi si allontanano, si addormenta. Nel sogno gli viene rivelata la verità sulla vita e sul mondo. Svegliatosi, decide di dedicare tutta la sua vita alla predicazione del Mistero che gli è stato rivelato. Nei romanzi di Dostoevskij questa moltitudine di gente derelitta, abitante del sottosuolo, trova albergo assieme a figure come Alëša o il Principe Miskyn, testimoni viventi dell’ansia di verità e di amore che mai saranno sopiti nell’uomo, personaggi puri che hanno scelto la strada della santità e vogliono vivere per l’eternità. Così, in Gozzano, la percezione della vecchiaia prematura e dell’inettitudine alla vita si alterna al senso di stupore per l’evidenza della realtà e allo sguardo nuovo sulla vita che la fede può aprire la fede.

Nella poesia «L’assenza», appartenente a I colloqui, il poeta/narratore racconta del bacio dato alla donna, che prelude alla dipartita di lei. La solitudine diventa l’occasione per guardare la realtà e sentirsi «stupito […]/. Stupito di che? Delle cose./ I fiori mi paiono strani:/ ci sono pur sempre le rose,/ ci sono pur sempre i gerani…». Ma a dimostrare che questo atteggiamento non scaturisce da una maturazione nel tempo, ma già compare nella prima raccolta La via del rifugio ci sovviene il componimento «Ora di grazia». Il poeta si chiede: «Son nato ieri che mi sbigottisce/ il carabo fuggente, e mi trastulla/ della cetonia risopita sullo/ stame, dell’erba, delle pietre lisce?// E quel velario azzurro tutto a strisce/ si chiama «cielo»? […]/ Oggi il mio cuore è quello di un fanciullo,/ se pur la tempia già s’impoverisce». Contemplando il Cielo il poeta non ha mai sentito tanto acuta «la voce […] dell’Infinito/ né mai così la verità del Tutto».

Ma in alcune poesie Gozzano approda oltre questa religiosità. Talora, infatti, traluce anche una fede che diventa preghiera rivolta ad un Tu, che ha un nome, Gesù. Leggiamo ne I colloqui (componimento VI): «Avventurato se colui che visse/ pellegrinando […]/ avventurato se colui morisse/ in voi! E in Te, Gesù, nella menzogna/ dolce, rendesse l’anima che sogna/ alle tue buone mani crocefisse! […]/ Non morirò premendomi il rosario/ contro la bocca, in grazia del Signore?». Gozzano sembra presago del suo destino di morire giovane quando scrive in «Salvezza»: « Meglio dormire, meglio/ prima della mia sera. […] La bellezza del giorno/ è tutta nel mattino».

Se poi leggiamo altri componimenti come «La basilica di san Marco», «Natale», «Pasqua», capiamo che il tema religioso non è solo ornamentale. Il fascino per la figura di san Francesco si avverte nei versi incipitari di «Laus Matris», così come espliciti riferimenti alla Madonna si avvertono ne «la parabola dei frutti», introdotta dal «salmo dell’Immacolata Concezione»: «Ecce Ancilla Domini./ Fiat mihi secundum verbum tuum». Nel «melologo popolare» «La notte santa» si rivivono le ore che precedono la nascita del Bambin Gesù. «Il campanile scocca/ La Mezzanotte Santa.// È nato!/ Alleluja! Alleluja!/ È nato il Sovrano Bambino./ La notte, che già fu sì buia,/ risplende d’un astro divino». La gioia è comune, la luce del mondo illumina il buio del mondo e della nostra vita.