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POLITICA

Governo Letta, crisi di una filosofia

Oltre alla crisi in agguato, c'è una crisi più pesante che incombe sul governo Letta: è la crisi della cultura di sinistra in quanto tale, sia essa erede del marxismo o di un progressismo cattolico.

Editoriali 27_07_2013
Enrico Letta

Al di là della crisi ora in agguato c’è una crisi ancora più pesante che incombe dall’origine sul governo Letta: è quella che nel nostro tempo travaglia alla radice la cultura di sinistra in quanto tale, sia essa erede del marxismo oppure anche (come nel caso personale di Letta e di altri come lui) di un progressismo cattolico nella sua prima ispirazione ma poi essenzialmente marxista tanto nel metodo quanto nei fini. E’ una crisi che peraltro incombe non solo su Letta e i suoi, ma pure sul governo nel suo insieme, su cui l’influsso del meglio della cultura politica del PdL non cessa di sbiadire.

In che cosa consiste, nel concreto dell’odierna situazione, la cultura politica di “sinistra”? Consiste in sostanza in un intreccio tra la cultura della vecchia socialdemocrazia nord-europea e il nichilismo neo-autoritario dei radicali. La prima - sviluppatasi non a caso nell’epoca d’oro dell’egemonia imperiale dell’Europa atlantica - parte dal presupposto che l’economia produttiva privata, sempre e comunque in espansione, sia perciò la proverbiale vacca che si può mungere senza fine per alimentare una spesa pubblica orientata a crescere essa pure senza fine a copertura di sistemi di “welfare” statale, non importa quanto costosi e quanto efficienti. Tutto ciò si pretende sia giustificato dal fatto che lo Stato sarebbe in ultima analisi una macchina per ridistribuire equamente la ricchezza che l’economia privata distribuisce iniquamente. Domandarsi quanto la spesa pubblica sia efficiente è vietato. E domandarsi in quale misura le istituzioni e servizi pubblici (come ad esempio la scuola  statale) siano orientati più a garantire un reddito ai loro addetti che a servire adeguatamente i loro utenti è un sacrilegio. La spesa pubblica è giustificata e efficiente a priori. Chi perciò, per continuare con l’esempio appena citato, mette in discussione lo spreco di risorse e la povertà di risultati della scuola statale viene perciò subito additato come “nemico della scuola pubblica”.

Coerentemente con le sue premesse, all’interno di questa filosofia politica non c’è spazio né per positivi programmi di rilancio dell’economia produttiva, né per incisivi progetti di riforma della pubblica amministrazione. “L’intendenza”, diceva Napoleone, “deve seguire”. Ovvero la macchina dei rifornimenti deve tener il passo dell’esercito, e non c’è altro da dire. Così è l’economia produttiva per chi oggi ci governa: che si arrangi a produrre quanto occorre per reggere la pressione fiscale. Per questa gente infatti di fronte alla crescita della spesa pubblica, che come dicevamo è comunque sacrosanta, il problema della sua razionalizzazione e quindi della sua diminuzione in pratica non si pone. L’unica risposta possibile è quella mitica della lotta all’evasione fiscale, che beninteso è censurabile, ma che di fatto non scenderà mai sotto una certa soglia in un Paese dove il fisco si mangia il 54 per cento dei redditi che non gli sfuggono e dove l’IVA è al 21 per cento (quando in Svizzera ad esempio è all’8 per cento). Non mi soffermo oltre sulla questione, già di recente qui bene illustrata da Gianfranco Fabi, ma è significativo che quando qualcuno a sinistra apre gli occhi al riguardo, come l’altro giorno ha fatto il vice-ministro dell’Economia Fassina, subito dalla sua area gli arriva un nugolo di strali. Concludendo su questo punto, una cultura che pensa all’economia produttiva privata come a una macchina che corre comunque a spron battuto, e che va munta senza tregua più che si può, non sa che dire e che fare in un’epoca come la nostra, in cui l’economia privata è colpita da una profonda crisi strutturale di lungo periodo. Nella sua cultura e nella sua tradizione non c’è niente che le possa essere utile al riguardo.

Un'altra carenza irrimediabile della cultura politica in questione è l’astrattezza. Facciamo il caso dell’IMU. Sapendo in quali condizioni in Italia è il catasto, e come anche là dove funziona sconti il fatto di basarsi su norme arretratissime, come si fa a pensare seriamente di esentare dall’IMU la prima casa salvo che sia di lusso? Così come stanno le cose costa molto meno esentarle tutte quante piuttosto che escludere dall’esenzione le case di lusso senza disporre né delle norme né dell’organizzazione che occorrono per individuarle in modo preciso ed efficace, così da non dare la stura a un diluvio di ricorsi.

Sin qui a grandi linee le tare ereditarie che si porta dietro oggi il Pd in quanto erede del Pci e della sinistra DC. Poi c’è l’altro elemento dell’intreccio cui si accennava: la componente radicale. Chi ancora si ricorda ciò che il Pci aveva di autenticamente popolare (ciò che Guareschi caricaturò ma anche giustamente celebrò nella figura del sindaco Peppone) anche se guarda da opposte sponde non può che dispiacersi vedendo la resa senza condizioni del Pd a un nichilismo da Tardo Impero, di cui è un esempio eclatante la pretesa di giungere ad approvare come provvedimento urgente la legge contro l’”omofobia”. Al di là della questione in sé - su cui non mi soffermo perché su La Nuova Bussola Quotidiana già se ne è parlato e se ne sta parlando in modo esauriente -  come si può credere e pretendere di far credere che nella situazione in  cui siamo sia questo un problema prioritario? E ciò tanto più quando si  dice di essere il rappresentante politico privilegiato del mondo del lavoro. Sin qui le drammatiche carenze del centro-sinistra. Poi ci sarebbe da dire di quelle del centro-destra, ma ne parleremo un’altra volta.