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USA

Gli Usa crescono del 4,1%. Trump smentisce i "guru"

Il tasso di crescita degli Stati Uniti è arrivato al 4,1%. Il presidente Trump lo aveva promesso in campagna elettorale. Ma gli economisti gli avevano letteralmente riso dietro. Ecco cosa dicevano (ed ecco perché i "guru" vanno presi con le molle, anche da noi).

Economia 02_08_2018
Donald Trump

Il tasso di crescita degli Stati Uniti è arrivato al 4,1% in questo secondo trimestre dell'anno. La crescita del Pil è stata la migliore dal terzo trimestre del 2014, la terza più robusta performance dall'uscita dalla recessione. C’è da dire che, sin dalla campagna elettorale, Trump lo aveva promesso. Aveva parlato di una politica economica per tornare a crescere del 4%. Adesso la previsione è stata leggermente superata. Ma gli economisti americani, quasi all’unanimità, consideravano “irraggiungibile” questo obiettivo. E prevedevano una grave crisi causata dalla politica economica promessa dall’allora candidato repubblicano alla presidenza.

“Donald Trump ha fatto una grande promessa per l’economia statunitense: il 4% di crescita. ‘Non è possibile’ rispondono 11 economisti contattati da Cnn Money”. Letto a distanza di due anni sembra una barzelletta questo articolo, rimasto impietosamente nella memoria di Internet dall’11 ottobre 2016, sul sito della Cnn, tuttora una delle più influenti delle televisioni americane. “No, i maiali non volano”, ironizzava allora l’economista Robert Brusca, economista dell’azienda di ricerca Fao Economics. “Donald Trump sta sognando”, spiegava. Perché, a suo avviso: la disoccupazione era già ridotta, molti Baby Boomers (la generazione degli anni ’60) stava andando in pensione e c’erano molti meno lavori nel manifatturiero rispetto ai decenni precedenti. Brusca spiegava che, in quelle condizioni, non si sarebbe potuto fare molto meglio della crescita media degli anni precedenti, dunque il 2%. Nell’ultimo anno di presidenza di Obama, la crescita negli Usa era stata dell’1,6%. Un 4% promesso da Trump appariva solo come una fantasia elettorale.

I dati degli economisti sentiti dalla Cnn erano confermati dalle stime dell’ufficio di ricerca della Federal Reserve (la banca centrale) di San Francisco. La crescita annua prevista, in media, doveva essere fra l’1,5% e l’1,75%, “ben lontano dal periodo compreso fra la Seconda Guerra Mondiale e il 2004, in cui la crescita era fra il 3% e il 4%”. Due i fattori che avrebbero potuto cambiare questo trend, secondo gli esperti della Fed: una riforma complessiva dell’immigrazione, per aumentare la forza lavoro straniera regolare, oppure una nuova rivoluzione tecnologica, come quella degli anni ’90 che portò alla nascita di Internet. Trump ha promesso e fatto esattamente l’opposto: c’è stata una prima stretta sull’immigrazione. E non si assiste ad alcuna rivoluzione tecnologia, almeno per ora. Eppure…

Già alla fine del 2017 si assisteva alla crescita dell’economia americana, a meno di un anno dall’insediamento del nuovo presidente repubblicano. In quell’occasione, Stephen Moore (Heritage Foundation) e  Jonathan Decker (Committee to Unleash Prosperity) si erano letteralmente divertiti a raccogliere le previsioni più catastrofiste sul Washington Times, quotidiano di area conservatrice. Dichiarazioni riguardo alla prossima “apocalisse”, come la definiva la capogruppo democratica alla Camera Nancy Pelosi.

“Io non investo in Borsa. Consiglio a tutti di non investire in Borsa, non adesso. E’ troppo pericoloso”, dichiarava il regista e attivista di sinistra Michael Moore, nell’agosto del 2017. Quelli che hanno seguito il suo consiglio non saranno stati molto contenti nei mesi successivi. Ma al di là del parere di artisti e politici, anche i migliori economisti americani si accodavano volentieri al catastrofismo. Come il premio Nobel Paul Krugman, molto seguito anche in Italia, che il giorno dopo le elezioni vinte da Trump scriveva sul New York Times: “Pare veramente che Donald J. Trump sia presidente e i mercati precipitano. Quando potranno riprendersi? Una prima risposta è: mai. Così probabilmente stiamo assistendo a una recessione globale, senza poterne vedere la fine”. “Sotto Trump, mi aspetterei una recessione prolungata che avrà inizio fra 18 mesi – prevedeva, nel giugno 2016 (prima delle elezioni) l’ex consigliere economico di Clinton e Obama, Larry Summers – Il danno sarà sentito ben al di là degli Stati Uniti”. “Trump causerà probabilmente un crash della Borsa e precipiterà il mondo nella recessione”, prevedeva Simon Johnson, professore di economia al prestigioso Mit di Boston, in un editoriale del New York Times. In piena campagna elettorale, l’agenzia Bloomberg usciva con titoli come: “Citigroup: Una vittoria di Trump a novembre potrebbe causare una recessione globale”. E nell’ottobre del 2016, il Washington Post usciva col titolo apocalittico: “Un Trump presidente potrebbe distruggere l’economia globale”.

Detto fatto: al secondo anno della presidenza Trump, gli Usa stanno bene e non ci sono affatto i segni di un collasso dell’economia globale. Nessuno dei catastrofisti ha fatto il mea culpa. Così come nessuno degli analisti politici che, per tutto il 2016 erano certi della vittoria di Hillary Clinton, ha ammesso di aver sbagliato. O peggio, di aver confuso la propria preferenza politica, ideologica, personale, la propria speranza insomma, con l’analisi dei dati reali. Nel caso di Trump conta, non solo, il pregiudizio contro la sua persona, ma anche quello contro la sua politica economica: nessuno di questi esperti ha valutato l’impatto di un drastico taglio delle tasse, come quello effettuato dall’amministrazione repubblicana. Hanno considerato unanimi questa politica come “irresponsabile”, perché priva delle coperture necessarie per far quadrare i conti pubblici. Ma non hanno valutato l’effetto della libertà di spendere più soldi, rimasti nelle tasche dei privati cittadini.