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CONFLITTI DI INTERESSI

Gli arbitri che giocano: Grasso e Boldrini candidati

La seconda e terza carica dello Stato, cioè il presidente del Senato Pietro Grasso e la presidente della Camera Laura Boldrini, sono scesi in campo con loro partiti di sinistra, alternativi al Pd. E hanno, per ruolo, l'ultima parola sulla gestione del parlamento. 

Editoriali 05_12_2017
Grasso e Boldrini

Fino a due giorni fa era “solo” la seconda carica dello Stato. Da domenica Pietro Grasso è anche il leader di un partito di minoranza della sinistra che si presenterà alle prossime elezioni in competizione con il Pd, che nel 2013 lo aveva designato a quella carica. Situazione analoga quella di Laura Boldrini, che da mesi ha intensificato le sue partecipazioni alle convention del partito di Giuliano Pisapia, cui aderisce ufficialmente, pur essendo la terza carica dello Stato indicata ad inizio legislatura per quello scranno dall’intera coalizione di centrosinistra, Pd in primis.

I due Presidenti delle Camere, che hanno l’ultima parola sulla calendarizzazione e la gestione delle attività di Montecitorio e Palazzo Madama, ormai sono due esponenti di due diversi partiti di sinistra ed entrambi hanno già scelto dove candidarsi. Sia Grasso che Boldrini chiederanno il loro voto contro il Pd e in antitesi agli altri partiti (quelli di centro-destra e i Cinque Stelle). Il primo lo farà addirittura come candidato premier di quel partito.

Questa palese faziosità delle due figure, che dovrebbero essere garanti del corretto gioco democratico e non parteggiare apertamente per una o l’altra forza politica, avvelena non poco quest’ultimo scorcio di legislatura, facendo dubitare della sincerità d’animo che all’apparenza ha sin qui mosso e muoverà nel prossimo futuro entrambi i soggetti nella conduzione delle due Camere, di qui al loro scioglimento. A questo punto sarebbe davvero auspicabile che tale scioglimento venisse decretato dal Quirinale nel più breve tempo possibile, affinchè la parola venga subito restituita agli elettori e sia Grasso che Boldrini possano essere liberi di fare propaganda e di chiedere il voto in nome di un programma e di un’appartenenza chiara e trasparente.

Peccato, però, che l’agenda parlamentare sia ancora densa di appuntamenti decisivi per la politica e per il Paese, a cominciare dall’approvazione definitiva della legge di bilancio, che di solito si trasforma in una “sagra dei questuanti”, con categorie, lobby e consorterie varie sguinzagliate per ottenere prebende, emendamenti favorevoli, mancette pre-elettorali. Senza dimenticare la volontà del premier Paolo Gentiloni di condurre in porto, anche a suon di voti di fiducia, l’approvazione della legge sullo ius soli e quella sul biotestamento. Entrambe le leggi potrebbero essere poi esibite in campagna elettorale quali trofei dalle forze di sinistra, ma anche scatenare reazioni contrarie da parte di milioni di elettori che, stando a recenti sondaggi, sempre più apertamente dichiarano la loro preoccupazione per le possibili ondate di immigrati che l’approvazione dello ius soli potrebbe generare verso il nostro Paese.

Oltre alla pratica disdicevole dei Presidenti delle Camere di dismettere gli abiti di garanti per indossare quelli di militanti, va registrata anche l’agonia del Partito democratico, che al momento risulta privo di riferimenti istituzionali. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, pur essendo fortemente spinto al Quirinale da Matteo Renzi, ora non ha più rapporti idillici con quest’ultimo, che dunque non può più considerarlo un alleato fedele nei suoi disegni revanscisti e di ritorno a Palazzo Chigi. Si sa che Mattarella non disdegnerebbe un Gentiloni bis dopo il voto, in caso di palude e di mancanza di vincitori nelle urne. Si sa pure che Pietro Grasso, palermitano come Mattarella, finirà per togliere voti anche al Pd, facendo perdere a quest’ultimo molti collegi uninominali e favorendo di fatto il Movimento Cinque Stelle e il centrodestra. Ma se questo fosse il prezzo da pagare per disarcionare definitivamente Renzi, più di qualcuno a sinistra sarebbe disposto a pagarlo.  Inoltre, come si diceva, i due Presidenti delle Camere si sono progressivamente allontanati dal Pd renziano e ora giocano una partita proprio contro il Pd e per rafforzare una sinistra alternativa. Un altro segnale inequivocabile del declino del renzismo.

Ma Grasso e Boldrini non sono i primi Presidenti delle Camere a schierarsi contravvenendo ai loro obblighi di equilibrio ed equidistanza. Nel 1994, con l’elezione di Irene Pivetti alla Camera e di Carlo Scognamiglio al Senato, entrambi del centrodestra, uscito vittorioso dalle urne, si pose fine alle presidenze affidate a personalità dell’opposizione stile Iotti, Ingrao, Napolitano e si inaugurò la tendenza a occupare, da parte di chi vince le elezioni, tutte gli scranni più alti. Ufficialmente si trattava di una svolta per favorire la governabilità. Tuttavia, visti i risultati, non pare che questa sorta di monocolore istituzionale abbia giovato più di tanto al Paese.  Senza dimenticare “tradimenti” e piroette opportunistiche. Esempio illuminante di scorrettezza istituzionale le posizioni smaccatamente di parte assunte da Gianfranco Fini quando era Presidente della Camera e tramava per boicottare il governo Berlusconi. Tuttavia, il tandem Camera-Senato, con due Presidenti entrambi anti-Pd, partito di maggioranza relativa durante la legislatura, appare un unicum nella recente storia del Paese. Vista l’aria che tira in casa dem, sembra abbastanza improbabile che nella prossima legislatura il loro partito possa esprimere anche soltanto uno dei due Presidenti. La beffa, però, di averli ostili entrambi già prima delle elezioni la dice lunga sulla confusione che regna a sinistra e sull’agonia del Pd.