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IL PARADISO RITROVATO/ 7

Giustiniano racconta a Dante il senso della storia

Già in altri canti della Commedia Dante ci aveva mostrato la sua visione provvidenziale della storia. Dante non vuole giustificare le ingiustizie, le sopraffazioni, le violenze, lo si è visto più volte nel percorso tra Inferno e Purgatorio. Il Fiorentino è, però, convinto che esista un disegno più alto.

Cultura 05_07_2015
Dante Alighieri

Già in altri canti della Commedia Dante ci aveva mostrato la sua visione provvidenziale della storia. Non significa certo che il poeta fiorentino creda, in termini hegeliani, che tutto ciò che è razionale sia reale e tutto ciò che è reale sia razionale, ovvero, per dirla in altri modi, che tutto ciò che accada in Terra sia buono e giusto. Dante non vuole giustificare le ingiustizie, le sopraffazioni, le violenze, lo si è visto più volte nel percorso tra Inferno e Purgatorio. Il Fiorentino è, però, fermamente convinto che esista un disegno più alto, provvidenziale e che il Creatore del mondo non è distante dalla vita degli uomini, certo si avvale anche di loro per intervenire nella storia. «Dio ha bisogno degli uomini» recita un film di Jean Delannoy tratto dal romanzo di Henri Queffélec.

Così nel canto II dell’Inferno avevamo letto a riguardo di Enea: «fu de l’alma Roma e di suo impero/ ne l’empireo ciel per padre eletto:/ la quale e ’l quale, a voler dir lo vero,/ fu stabilita per lo loco santo/ u’ siede il successor del maggior Piero./ Per quest’andata onde li dai tu vanto,/ intese cose che furon cagione/ di sua vittoria e del papale ammanto». Ovvero Enea viene scelto nel Paradiso come padre di Roma e del suo Impero: Roma sarà anche sede del papato e, quindi, cuore del mondo. Potremmo anche dire che la visione della storia dantesca è lineare, prevede un inizio, uno svolgimento e un epilogo. La creazione ha dato avvio allo spazio e al tempo così come li conosciamo. All’interno della linea della storia (quella che è documentata attraverso le fonti scritte) è radicata la storia della salvezza che inizia attraverso la rivelazione raccontata nella Bibbia nelle vicende di Abramo, di Mosè e i Profeti fino ad giungere a quella che san Paolo chiama pienezza dei tempi, il momento in cui Dio si incarna nel Figlio Gesù Cristo, sotto l’impero di Ottaviano Augusto (27 a. C.- 14 d. C.) quando si verifica una pace universale, la cosiddetta pax augusta, viene chiuso il tempio di Giano, Roma sospende l’attività belligerante e imperialistica (o almeno così sostiene nella propaganda dell’imperatore). Solo per due volte rimase chiuso il tempio di Giano, la prima risaliva all’epoca repubblicana. 

La pienezza dei tempi è, quindi, un momento particolare della storia, che ha permesso agli apostoli di peregrinare per tutto l’Impero in un periodo di relativa tranquillità: san Paolo ha potuto, ad esempio, percorrere per terra e per mare migliaia di chilometri per diffondere la buona novella. Con l’incarnazione, la morte e la resurrezione di Gesù si compie la rivelazione, ovvero si sono manifestate tutte le verità di fede. Nulla di più potrà essere aggiunto nei secoli futuri in attesa del ritorno di Gesù, ritorno che sarà trionfale, la parusia che preluderà al giudizio universale, di cui spesso si è parlato nella Commedia. Allora avverrà la resurrezione dei corpi. Finirà il mondo così come lo conosciamo, ci saranno cieli e terra nuova, non più questo tempo e questo spazio. In Inferno VI Virgilio chiariva a Dante a proposito di Ciacco: «Più non si desta/ di qua dal suon de l’angelica tromba,/ quando verrà la nimica podesta:/ ciascun rivederà la trista tomba,/ ripiglierà sua carne e sua figura,/ udirà quel ch’in etterno rimbomba».

Il racconto delle vicende della storia romana e dell’aquila imperiale si dispiega all’interno di questa visione della storia. Pochi versi sono dedicati alle premesse che hanno portato alla fondazione della città e all’epoca monarchica (Orazi contro Curiazi, il ratto delle Sabine, lo stupro di Lucrezia), mentre un’attenzione maggiore è concessa alle vicende della Roma repubblicana, aperta dall’espulsione di Tarquinio il Superbo nel 509 a. C. In poche terzine Dante si sofferma sulle guerre puniche, su Annibale, su alcune famiglie importanti di Roma (Deci, Fabi) e alcuni comandanti (Torquato, Quinzio, Scipione, Pompeo). Con rapidità Dante arriva a raccontare del «tempo che tutto ’l ciel volle/ redur lo mondo a suo modo sereno». È l’inizio dell’età imperiale che inizia, nella visione dantesca, da Caio Giulio Cesare (100 a. C. – 44 a. C.) che conquista la Gallia, varca il Rubicone, segno del pomerium che non si può superare in armi, combatte in una cruenta guerra civile a Durazzo e Farsàlo contro Pompeo, passa in Asia minore a visitare i resti Troia («Antandro e Simeonta, onde si mosse,/ rivide e là dov’Ettore si cuba», notizie che Dante ricava non dalla storia, ma dal poema epico lucaneo Pharsalia) e poi in Africa. 

Caio Giulio Cesare è il primo Cesare, per Dante, il primo imperatore, per questo è quello a cui è dedicato il maggior numero di versi (nella storia in realtà il primo fu Ottaviano Augusto). Neanche un cenno compare all’uccisione di Cesare, ma si racconta della guerra che ne scaturisce, quella in cui trovano la morte i cesaricidi Bruto e Cassio. In seguito alla battaglia di Azio del 31 a. C, in cui muore Cleopatra, il potere passa integralmente nelle mani di Ottaviano (considerato il secondo Cesare) sotto il quale viene chiuso il tempio di Giano («con costui puose il mondo in tanta pace,/ che fu serrato a Giano il suo delubro»). Sotto il terzo Cesare nasce Gesù Cristo, grazie al quale avviene la redenzione dell’umanità e si ricompone l’alleanza tra Dio e l’uomo. Dante lo esprime, come è solito, con toni forti: la nascita del Salvatore è la «vendetta» all’ira di Dio per il peccato originale. Nel 70 d. C. Tito assedia Gerusalemme e distrugge il tempio, azioni che Dante considera come la «vendetta […]/ de la vendetta del peccato antico». Il poeta è figlio del suo tempo e, in qualche modo, risente della visione antisemita secondo la quale la distruzione di Gerusalemme è stata la vendetta divina per il fatto che gli Ebrei avevano messo a morte Gesù. 

Non si può non ricordare qui che i cristiani non possono essere antisemiti, gli Ebrei, come ha ricordato papa san Giovanni Paolo II, sono fratelli maggiori dei cristiani, Gesù, Maria, gli apostoli, per non parlare dei grandi personaggi dell’Antico Testamento, provengono dal popolo ebraico. Nel 70 d. C. Tito non è ancora imperatore. Il potere è in realtà retto dal padre Vespasiano che, nominato imperatore nel 69, gli ha affidato il compito di condurre la Guerra giudaica iniziata nel 66. Tito sarà nominato imperatore solo nel 79. A queste vicende Dante ha già fatto riferimento nel Purgatorio, nel canto XXI quando aveva incontrato Stazio («Nel tempo che ‘l buon Tito, con l’aiuto/ del sommo rege, vendicò le fóra/ ond’uscì ‘l sangue per Giuda venduto»). Con un volo pindarico Giustinano sottace settecento anni di storia per passare da Tito al «dente longobardo» che morde lo Stato della Chiesa. Si allude alle vicende (772-774) che Manzoni racconterà nell’Adelchi. L’ingresso dei Longobardi nello Stato della Chiesa e la richiesta di aiuto del papa ai Franchi provocano la guerra che porterà alla sconfitta del popolo, che ha dominato e schiacciato l’Italia da due secoli, e alla vittoria di Carlo Magno. 

Dante auctor tralascia di nuovo altri secoli, ben quattro, per correre alle vicende della storia contemporanea, quella che vede contrapporsi Guelfi e Ghibellini: i primi vogliono contrapporre all’aquila imperiale i gigli gialli, gli altri si appropriano del segno dell’aquila imperiale per interessi personali («L’uno al pubblico segno i gigli gialli/ oppone, e l’altro appropria quello a parte») cosicché Dante non si riconosce appartenente ad alcuna fazione («sì ch’è forte a veder chi più si falli»). I Ghibellini hanno separato la giustizia dal potere, per cui non si possono considerare eredi del popolo romano e di quel Giustiniano che sta parlando e che è stato interprete di un’unità giuridica.

Il monologo prosegue, non ne seguiremo tutto il percorso. Ricordiamo soltanto che Giustiniano indica le caratteristiche delle anime che si trovano nel secondo Cielo di Mercurio e addita l’anima di Romeo di Villanova, che servì Raimondo Berengario, meritò sotto il suo servizio, anche se l’ingratitudine umana lo fece poi allontanare dalla corte povero, senza alcun bene.