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LA MOSTRA AL MEETING

Curare: il frutto dell'abbraccio di una Madre

Che cos’è la cura? Da questa domanda parte la mostra allestita a Rimini da Banco Farmaceutico e Medicina e persona. «La scienza senza carità è materialismo. Oggi rischiamo l'abbandono terapeutico, l’accettazione acritica di ogni desiderio del paziente. Invece il prendersi cura presuppone l’amore al destino dell’altro».

Cultura 22_08_2016
Una delle immagini esposte: “L'ammalata” di Roger De La Fresnay

Per rispondere al bisogno del malato è necessaria una cura che avvolga totalmente la sua persona. “Per questo la mostra che presentiamo al Meeting di Rimini si intitola “L’abbraccio del Pallium”, a ricordare anche il manto materno della Madonna che porta la salvezza ad ogni uomo”. Giorgio Bordin, curatore insieme a Paola Marenco della mostra realizzata dall’associazione Medicina e Persona e dalla fondazione Banco Farmaceutico delinea un percorso che vuole essere d’aiuto alla medicina “in un momento di crisi”.

Dottor Bordin, se la scienza e le possibilità di cura non sono mai state così illimitate perché parla di crisi della medicina?

La mostra nasce da questa idea: oggi abbiamo una medicina estremamente potente ed efficace, capace di debellare malattie un tempo inguaribili o senza possibilità diagnostica. Eppure, in generale, i malati non si sentono più curati, mentre spesso i medici sono frustrati. Significa che c’è qualcosa che non funziona o quanto meno che ci siamo dimenticati qualcosa per strada. La mostra ha origine proprio da questo interrogativo: cosa ci siamo persi?

E quale risposta avete trovato?

Per trovarla siamo tornati all’origine della cura: che cos’è la cura? E al tempo stesso, cosa significa innovare alla luce della tradizione? Sono le due domande che animano la mostra. Abbiamo quindi esaminato in modo sintetico la storia della medicina occidentale a cui apparteniamo, sottolineando che la medicina in quanto tale esisteva già al tempo dei greci, ma che l’istituzione degli ospedali è un frutto dalla carità cristiana: significa che la scienza non implica necessariamente la carità ma che nello stesso tempo la carità, per essere tale, non può che avvalersi di tutto quanto serva a curare il malato e quindi della scienza.

Cosa accade quando manca una di queste due dimensioni?

La scienza senza carità è materialismo che riduce la persona malata alla sua malattia. Il malato non è una macchina guasta, a cui devo solo cambiare il pezzo per guarirlo. Questa visione materialista si è completata nel positivismo ma ha perdurato per tutto il secolo scorso, quando la fiducia positiva nella bontà intrinseca del progresso scientifico ha iniziato a vacillare. Così qualcosa ha iniziato a muoversi per riempire il vuoto che si stava creando. Nella storia del Novecento, infatti, emerge la figura emblematica per la medicina, di Cicely Saunders, infermiera ideatrice delle cure palliative e del movimento Hospice. Saunders ha introdotto un’assoluta novità in campo clinico e farmacologico proprio nei contesti in cui la scienza aveva gli artigli spuntati e non c’era più nulla da fare, in un certo senso smascherando il mito scientista. Come? Proprio tornando all’origine di ciò che muove il “prendersi cura di”, che è l’amore al destino dell’altro, alla sua necessità di salvezza, di cui la domanda di salute è solo un’espressione potente. Quella della Saunders è una visione completa dell’uomo, che include la sua religiosità innata di essere bisognoso di un senso a cui si risponde attraverso la cura della salute. Per questo l'infermiera diede vita a opere laiche di alto livello scientifico, accompagnando i pazienti a morire con dignità e riuscendo ad alleviarne efficacemente le sofferenze.

Dove sbaglia invece lo spiritualismo?

Dopo il fallimento del materialismo, si è caduti in una riduzione opposta, dello spiritualismo che come il materialismo pecca di non tenere conto di tutti i fattori in gioco. Nell’ambito delle cure palliative, ad esempio, si dà molta importanza al bisogno spirituale del malato, un fattore certamente positivo e sconosciuto al ventesimo secolo. Pochi anni fa, al congresso della società europea delle cure palliative, ho sentito il responsabile della commissione per la spiritualità dare una bella definizione dei bisogni spirituali di un malato, quando ha spiegato che un paziente affetto da cancro in stadio terminale gli aveva detto “I want to be washed and not to be clenaed”, perché una persona non si pulisce come una macchina ma si lava. Ora, questa richiesta è sicuramente vera, ma ne esprime una più profonda. Il bisogno di un senso. Perché quando ci si trova davanti alla morte uno non può non chiedersi perché. Tale è il livello religioso-esistenziale che spesso dimentichiamo e che è più profondo di quello spirituale. A riprova del fatto che ogni riduzione è pericolosa, lo spiritualismo che lascia da parte la domanda di significato rischia di perdere quello sguardo totale, indebolendo anche la cura materiale, tanto che oggi sembra che il palliativista è tanto più bravo quanto meno interviene. Se una delle problematiche del materialismo era l’accanimento terapeutico a priori, oggi rischiamo l’abbandono terapeutico; così, dal paternalismo del medico che decideva senza appello il bene del malato, si è passati all’accettazione acritica di ogni desiderio anche del paziente in forza del rispetto di un’idea di autonomia astratta e avulsa dalle circostanze.

Come superare questi errori opposti?

Le cure palliative della Saunders sono nate proprio per curare dei sofferenti e si sono rivelate anche una risposta al grande problema dell’eutanasia; oggi, in alcuni paesi delle Fiandre, queste stesse cure palliative definite “cure palliative integrali”, prevedono l’eutanasia come parte integrante del progetto di cura. Per uscire da questi due estremi bisogna – come Saunders - guardare all’uomo come esigenza di salvezza, di totalità, senza censurare la domanda più profonda, ma talvolta scoprendola con lui. Faccio un esempio per farmi capire: una paziente un giorno mi disse: “Ho chiesto al dottore perché sono stata male. E lui mi ha risposto che mi si era formato un grumo di sangue in una vena della gamba, che si era staccato ed era andato a chiudere le vene del polmone (aveva avuto un’embolia polmonare). Io ho capito – ha proseguito la signora - quello che mi ha spiegato, ma gli avevo chiesto un’altra cosa…”. Ecco, questo è il problema culturale che non vogliamo affrontare, se non occasionalmente e comunque poco. Lo ha detto un noto neurologo tedesco, Victor von Weisäcker, affermando che “il fatto che la medicina odierna non possegga una propria dottrina sull’uomo malato è sorprendente, ma innegabile”: l’affermazione sintetizza drammaticamente il nocciolo essenziale del disagio che anche noi operatori sanitari percepiamo, anche quando non sappiamo definirlo. Il problema è che oggi si fatica a reggere il peso delle domande esistenziali. È per questo che alle macerie lasciate dal fallimento del materialismo si risponde con la fuga nello spiritualismo.

E infatti la materia non è mai stata così svalutata. L’eutanasia e la manipolazione genetica lo dimostrano.

La tecnologia ha amplificato il problema: prima non esistevano gli stati vegetativi e neppure gli embrioni manipolabili, non si sopravviveva a lungo con la Sla o la neoplasia. Ma la sfida è sempre la stessa: curare rispondendo secondo una visione integrale dell’uomo ma in una forma nuova. Ripeto: occorre lavorare su una visione culturale integrale, insieme alla ricerca scientifica, che però è già potentemente valorizzata.

Cosa c’entra “L’abbraccio del pallium” in tutto questo?

?La terza parte del percorso mostra l’iconografia mariana della Madonna della misericordia che si lega alle cure “palliative”, le quali prendono infatti il nome dal “pallium”, il mantello della Madonna che avvolge e protegge tutte le persone. Non a caso queste icone sono il simbolo delle confraternite del XIII e XIV secolo dedite alle opere di misericordia verso i malati e i morenti. È di questo che l’uomo di oggi ha bisogno, dell’abbraccio materno, della carità misericordiosa che si curva su di lui, fasciandone le ferite e donandogli, insieme alle cure, l’amore che dà significato all’esistenza. Si capisce così che, per innovare, bisogna tornare all’origine.