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SAM GREGG

"Crisi in Europa: la salvezza è nella fedeltà alle radici"

La crisi economica europea nasconde dietro a sè una crisi di valori. A dirlo è Sam Gregg, Direttore ricerche dell’Acton Institute for the Study of Religion and Liberty. L'Europa deve guardare alla propria storia per trovare un rilancio: il Medioevo infatti fu un momento di straordinaria crescita culturare ed economica.

Economia 18_07_2013
Sam Gregg

Dove sta andando l’Europa dello stato sociale? Riuscirà a sopravvivere alla crisi, anche morale? Come mai è giunta a questa situazione di stallo e recessione? A queste e altre domande ha cercato di rispondere Sam Gregg, Direttore ricerche dell’Acton Institute for the Study of Religion and Liberty in una conversazione con La Nuova Bussola Quotidiana tenutasi nel corso della Acton University 2013, una quattro-giorni di studio organizzata con cadenza annuale a Grand Rapids dal think tank cattolico statunitense che da oltre vent’anni si dedica alla diffusione dei principi della società e dell’economia libera alla luce della dottrina cristiana. Nato in Australia, Gregg ha conseguito il Dottorato in filosofia a Oxford, è esperto di politica economica, storia economica e teoria del diritto e collabora con alcune delle principali riviste scientifiche del suo settore, oltre a essere autore di numerosi volumi, l’ultimo dei quali, Becoming Europe, mette in guardia gli Stati Uniti dal trasformarsi nell’Europa del fallimentare welfare.

Dottor Gregg, quali sono le cause principali della crisi in Europa?

Credo che la causa principale della crisi sia il modello sociale europeo. È vero che anche l’euro, il sistema bancario fragile e la pesante regolamentazione del mercato del lavoro sono problemi importanti che attanagliano il Vecchio Continente, ma non li ritengo primari, bensì sintomatici e conseguenti a una visione economica che si basa su quella che è la reale priorità dei cittadini europei: la sicurezza ad ogni costo, a scapito della libertà. Quando si crede che la sicurezza economica sia lo scopo primario e che possa essere ottenuta solo attraverso lo Stato, le conseguenze che ne derivano sono la forte regolamentazione del mercato, lo stato sociale, la mancanza di concorrenza. Per cui finché non ci sarà un cambiamento nell’atteggiamento di fondo dei cittadini, anche se le politiche e le istituzioni cambieranno l’Europa passerà senza sosta da una piccola crisi all’altra – e ricordiamoci che sta entrando nel settimo anno consecutivo di recessione. Il problema è quindi di tipo valoriale e di atteggiamento di fondo.

Qual è, secondo lei, il futuro dell’euro?

Dipende senz’altro da molteplici fattori. Per ora credo che non sia nell’interesse di lungo periodo di alcuni Paesi (la Grecia, forse anche la Spagna e l’Italia) restare nell’eurozona e potrebbe accadere che un piccolo gruppo di Paesi quali la Germania, l’Olanda, l’Austria, il Belgio, la Svezia e la Finlandia, mantenga una moneta comune mentre gli altri Paesi tornano alle loro valute: si tratterebbe dell’unico modo, per questi ultimi, di salvarsi dal problema del debito. Un altro scenario possibile è che alcuni Paesi continuino a “pagare il prezzo” che serve per mantenere gli altri nella zona euro ad ogni costo, ma i loro contribuenti potrebbero ad un certo punto dire basta –penso in particolare alla Germania.

Cosa succederebbe all’integrazione politica europea se l’euro venisse meno? Crede che ci siano altri modi per sostenerla in modo stabile?

Credo sia possibile che il processo di integrazione europea prosegua anche se l’eurozona venisse meno, perché ritengo che strumenti come l’ulteriore liberalizzazione del commercio o la rimozione di impedimenti alla circolazione dei lavoratori siano altrettanto efficaci. Ma credo anche che in questo momento i Paesi europei non vogliano ulteriori trasferimenti di sovranità. Quindi forse l’integrazione economica e politica sono in un certo senso arrivate al loro punto “massimo” e il modello di integrazione che conosciamo fino a oggi ha più o meno raggiunto il suo scopo. Allora dovranno accadere nuovi modi di creare l’integrazione: in fondo, ciò che tiene davvero unita l’Europa è la sua cultura comune. Il problema è che gli europei rispetto a essa hanno un atteggiamento ambivalente, soprattutto quando si tratta del posto della religione nella loro cultura. Per cui se l’Europa vorrà essere realmente integrata, dovrà affrontare in modo più serio il discorso culturale e chiedersi quanto sia stata fedele alle sue radici.

Qual è il legame fra il modello sociale europeo e la de-cristianizzazione dell’Europa?

Credo che il modello sociale europeo sia stato fortemente influenzato dal pensiero cristiano-democratico. Nell’immediato dopoguerra molti uomini politici come De Gasperi, Adenauer, Schumann in Italia, Francia, Germania, ma anche in Belgio, Olanda e Lussemburgo erano ansiosi di vedere l’integrazione europea. Innanzitutto perché ritenevano che fosse il mezzo per evitare di uccidersi a vicenda; in secondo luogo perché ritenevano che vi fosse un insieme di valori e di istituzioni comuni condivisi. Ciò ebbe un riverbero politico e culturale, ma plasmò altresì il modello sociale europeo perché i democratico cristiani cercarono di integrare nella nascente unione europea alcune istituzioni dell’economia di mercato, ma anche alcuni programmi e politiche sociali - fra i quali una buona dose di “Stato sociale”. Inoltre, siccome il modello sociale europeo ha sempre cercato di impersonificare alcuni valori cristiani quali la libertà, la solidarietà e la sussidiarietà, la de-cristianizzazione dell’Europa (intendo il progressivo distacco degli europei dalle loro radici) ha per conseguenza il distacco degli europei da questi valori.  E cosa riempirà il vuoto? Lo riempiranno quelli che possiamo definire i valori “secolari”, che sono spesso radicalmente diversi dai valori cristiani - ad esempio nel definire il concetto di persona, nel modo di guardare al futuro, ecc. - e che porteranno il modello sociale europeo ancora di più verso il collettivismo. Perché quando le persone perdono la fede in Cristo, non smettono di credere, ma trasferiscono la fede verso qualcos’altro. Purtroppo la storia ci ricorda che in Europa ciò è già accaduto e le persone hanno iniziato a credere nella razza, nella classe oppure nello stato. E tutte e tre queste cose possono avere un impatto negativo per lo sviluppo economico dell’Europa, per non parlare della sua cultura intesa complessivamente.

L’Europa può costruire un futuro diverso e rinascere guardando al suo passato? 

Sicuramente se l’Europa vuole guardare alla sua storia cercando le radici della sua ripresa e del suo rilancio, allora deve riscoprirla e, in particolare, molti europei devono studiare molto più seriamente il Medioevo e ammettere che fu, di fatto, un’occasione di straordinaria crescita di civiltà, culturale ed economica.  Le economie capitaliste sono nate nell’Europa medievale e pre-Riforma nell’Italia del Nord, nelle Fiandre e in alcune parti dell’Inghilterra. Bisogna quindi che gli europei abbandonino definitivamente il preconcetto che il Medioevo sia sinonimo di periodo buio come descritto dalla storiografia che va per la maggiore, mentre è stato un periodo straordinario dal quale gli europei contemporanei possono imparare molto.  Inoltre, la realtà medievale era quella dei centri di potere diffusi e nel mondo globalizzato accade una cosa analoga con la concorrenza globale, il libero e globale flusso di capitali e di lavoro, con un mondo che è sempre più “integrato”.  Ecco, l’Europa deve essere consapevole che non puó esserne “immune”, cioè non può fare finta che la globalizzazione non stia avvenendo (oppure semplicemente che in Asia molti siano disposti a lavorare di più e per meno, a differenza che in Europa). Allora per crescere economicamente gli europei devono essere consapevoli del fatto che la pressione della globalizzazione renderà sempre più difficile mantenere le stesse politiche sullo stato sociale o sulla regolamentazione del mercato del lavoro, perché la fetta dell’economia globale ascrivibile all’Europa si sta già riducendo. In definitiva, il mercato unico oggi non funziona più e se l’Europa vuole essere competitiva deve chiedersi se vuole integrarsi col resto del mondo e rimuovere quante più barriere possibili verso l’esterno, altrimenti è destinata a perdere.

Perché non sta accadendo nulla in questo senso?

Una buona parte della classe politica europea dimostra di avere un grosso problema: non conosce le leggi di base dell’economia e si appoggia a sistemi elettorali che distorcono la situazione, perché sono fatti per creare il consenso ed evitare il conflitto, mentre per adottare le riforme ci vogliono sistemi che consentano il conflitto, che é positivo, come successe con Margaret Thatcher.

Cosa  pensa che succederà all’Italia?

L’Italia sotto molti punti di vista è un paradosso, perché ha uno Stato molto “pesante”, molta burocrazia, ma gli italiani sono diventati molto bravi a ignorare entrambi e questa forse è anche una delle ragioni per cui le imprese familiari sono così vive in Italia. È un Paese di imprenditori che nel Medioevo ha inventato il moderno sistema finanziario e bancario, ma anche quello che oggi chiameremmo il terzo settore o “no profit” (pensiamo a Siena).  Al di là del problema politico, queste radici storiche sono un’enorme risorsa per l’Italia per ripartire e innovare nell’economia reale e nel settore della finanza. Ma un altro grave problema che va affrontato è quello demografico. Credo che tutti gli italiani debbano preoccuparsi seriamente di queste cose se vogliono avere un futuro. Inoltre, devono capire che il problema dell’evasione fiscale può essere risolto solo con la diminuzione della pressione fiscale.

Quale ruolo e quale responsabilità hanno i cattolici in generale nell’attuale situazione di crisi economica e morale dell’Europa?

Innanzitutto devono, una volta di più, riscoprire le loro radici e letteralmente imparare la tradizione della Chiesa in proposito. La tradizione della legge naturale è stata uno degli argomenti di cui la Chiesa cattolica ha parlato per secoli: in San Tommaso d’Aquino e nella tradizione Scolastica si trovano riferimenti alla rule of law, ai diritti di proprietà, al libero scambio, elementi alla base dell’economia libera. Quindi va sfatato il mito dell’etica protestante di Max Weber, eppure in Europa tutti pensano che il capitalismo sia stato creato dai protestanti! In secondo luogo, devono rendersi conto che le soluzioni di tutti i nostri problemi non possono risiedere solo ed esclusivamente nello Stato e nella politica, nei quali in Europa i cattolici hanno riposto troppa fiducia  - mentre la politica può essere distruttiva e fuorviante. È strano che ciò sia potuto accadere, per cui è bene che i cattolici imparino cosa significhino veramente la solidarietà e la sussidiarietà e inizino a pensare, alla luce di questi principi, a soluzione pratiche in cui ciascuno di noi può incarnare la virtù della solidarietà secondo il principio di sussidiarietà.  Ad esempio per affrontare il problema della povertà non dobbiamo sempre rivolgerci allo Stato, ma dobbiamo chiederci cosa possiamo fare individualmente, come parrocchia o come associazione cattolica a livello locale. I cattolici devono quindi vivere una sorta di conversione interiore; ma anche, di conseguenza, pensare a nuovi modi creativi di vivere i comandamenti del Vangelo ed evitare gli errori che hanno segnato i Paesi europei da oltre quarant’anni.