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L'ALDILA' NECESSARIO

Cicerone e i beati del ”Somnium Scipionis"

Cicerone, il più grande autore della latinità, ha permesso l'assimilazione tra cultura greca e romana. Ma per entrambe, l'aldilà altro non è che un riflesso triste e sfuocato dell'aldiqua. Riflessioni sul destino in bocca al retore più famoso dell'antichità.

Cultura 14_04_2013
Cicerone

Cicerone (106 a. C. - 43 a. C.), il più grande retore della latinità, ha svolto un ruolo fondamentale nell’assimilazione della cultura e della filosofia greca da parte del mondo romano. I suoi trattati retorici (De oratore, Orator, Brutus), le sue esemplari orazioni (le Verrinae, le Catilinariae, la Pro Milone, le Filippiche, …), i testi filosofici (De officiis, De finibus honorum et malorum, Laelius de amicitia, Cato Maior de senectute, …), il dialogo a carattere politico De republica rappresentano un contributo essenziale alla storia della civiltà occidentale.

L’Arpinate, che colloca il luogo dei beati non in un mondo ctonio, bensì nella Via Lattea,  ha descritto la condizione delle anime in quell’opera immortale passata alla storia con il nome di Somnium Scipionis, in realtà non concepita come testo a sé stante, bensì appartenente alla monumentale opera politica De re publica. Cicerone si rende qui interprete di una visione minoritaria e elitaria dell’aldilà, secondo la quale la vita terrena è solo una pallida ombra di quella che sarà quella ultraterrena. La visione più diffusa tra gli antichi Greci e Romani è, invece, quella secondo la quale l’aldilà è un riflesso sfuocato dell’al di qua, ovvero più importante è la vita sulla Terra, in secondo piano quella che ci aspetta per l’eternità.

Nell’opera ciceroniana forti sono, dunque, gli influssi platonici, in particolar modo si sentono gli echi del dialogo Fedone o del mito di Er presente nella Repubblica. Senza sviluppare, in questa sede, un argomento che richiederebbe uno spazio notevole, giova ricordare che da Platone (427 a. C.-347 a. C.) derivano senz’altro la collocazione delle anime dei beati nel Cielo, ovvero tra le stelle, e la constatazione che la vera vita sia quella che ci aspetta nell’aldilà. Fuori dal carcere del corpo, là solo si trova la vera patria. Con Platone siamo in un certo senso ad una posizione diametralmente opposta rispetto a quella omerica. «Dei quattro miti escatologici [platonici], quelli della Repubblica, del Gorgia, del Fedro e del Fedone, l’ultimo è il più completo. Esso suggerisce una ripartizione delle anime, dopo la morte, in cinque categorie: i morti le cui colpe sono tanto gravi che il loro castigo è eterno e servirà da esempio agli altri; quelli che praticarono una virtù così grande, da meritare di abitare per sempre nell’empireo dell’etere divino. Fra questi due estremi, fra i due destini fissati per sempre nell’infelicità o nella beatitudine, stanno i destini della maggior parte degli uomini, quelli delle anime che una virtù troppo scarsa costringe a percorrere il ciclo delle reincarnazioni successive» (Charles Moeller). Le pochissime anime dei beati sono ora collocate nel cielo, nella Via Lattea. Ai dannati, al contrario, viene riservato il mondo sotterraneo. Tra Omero e Platone naturalmente c’è una lunga teoria di ipotesi differenti sul destino ultraterreno, su cui non è il caso ora di soffermarsi.

Vi sono, però, anche chiare differenze tra la rappresentazione di Platone  e quella di Cicerone. L’Arpinate utilizza, infatti, l’espediente del sogno rivelatore. Nel dialogo ambientato nel 129 a. C. Cicerone si immagina che Scipione l’Emiliano si intrattenga con l’amico Lelio e gli racconti di un sogno avuto vent’anni prima mentre si trovava a  Cartagine durante la terza guerra punica (149 a. C.). A Scipione l’Emiliano appare in sogno Scipione l’Africano che mostra al nipote la gloria che spetta ai benemeriti nei confronti della patria. Il vincitore dei Cartaginesi a Zama nel lontano 202 a. C. attesta che «per tutti coloro che hanno conservato, aiutato, ingrandito la patria, è assicurato in cielo un posto particolare, dove i beati si godono l’eternità». Coloro che noi reputiamo morti, continua l’Africano, proprio loro, invece, vivono perché si sono liberati dalle catene del corpo. Allora Scipione l’Emiliano è preso dal dubbio se non sia meglio liberarsi subito dalla prigione del corpo attraverso il suicidio, prima del tempo stabilito dagli dei. Il padre Paolo, il famoso vincitore di Pidna, fattosi incontro al figlio, lo dissuade dicendogli: «Gli uomini […] vengono al mondo a questa condizione, di custodire cioè quel globo, che tu vedi nel centro di questo spazio e che è detto Terra, e loro fu data l’anima (dedotta) da quei fuochi eterni, che voi chiamate astri e stelle, le quali, di forma sferica e rotonda, animate da menti divine, percorrono con incredibile velocità i loro giri e le loro orbite. Perciò tu […] e tutti i pii dovete trattenere ancor l’anima in prigionia del corpo, né potete emigrarvene dalla vita umana senza l’ordine di colui dal quale l’anima vi è stata data, per non sembrare d’aver disertato l’ufficio umano commessovi dal dio». Come si può ottenere il premio dei beati, la Via Lattea da cui tutto appare «bellissimo e mirabile»? L’indicazione del padre Paolo non lascia adito a dubbi al riguardo: «Coltiva la giustizia e la pietà, la quale pur essendo già di grande importanza nei rapporti con i genitori ed i familiari, lo è di grandissima nei confronti della patria». La pietas è quel rapporto di rispetto e di riverenza del romano nei confronti di chi gli è superiore (il genitore, il comandante, la patria, la divinità).

Il nonno, l’Africano, conclude in maniera mirabile parlando dell’anima e dimostrando la sua eternità in un lungo monologo che riproduciamo qui solo nel suo esordio: «Sforzati e considera che non sei mortale tu, ma questo tuo corpo; né infatti tu sei quale ti mostra questo tuo aspetto corporeo, ma ognuno è quale è la sua anima, e non già quell’apparenza che può essere mostrata a dito. Sappi che tu sei un dio, se è dio invero colui che ha forza, pensiero, memoria, provvidenza […]. Come lo stesso dio eterno muove un mondo per sua parte mortale, così l’anima sempiterna muove il fragile corpo». La fortuna che il Somnium Scipionis  avrà nell’antichità e nel Medioevo sarà enorme.