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LA CRISI

Chiesa in Slovenia, dopo il crac si riparte da zero

Dietro il buco di 800 milioni di euro ci sono monsignori "distratti" e spregiudicati. Ora l'intervento della Santa Sede ha costretto alle dimissioni anche due vescovi, ma lo scandalo è emblematico della febbre finanziaria che ha colpito le Chiese nell'ex Jugoslavia dopo la restituzione di beni e ricchezze da parte dello Stato.

Esteri 14_08_2013
chiesa a Lubiana

Non c’è pace per la Chiesa cattolica in Slovenia. Dopo la destituzione nel 2012 dell’allora arcivescovo di Lubiana, Mons. Alojz Uran, a causa di una sua presunta paternità, e i sospetti della medesima natura sul cardinale sloveno Franc Rodé, caduti dopo un esame del DNA negativo, pochi giorni fa è toccato al successore di Uran, mons. Anton Stres, e all’arcivescovo di Maribor, mons. Marjan Turnšek, dare le dimissioni per evitare provvedimenti più severi da parte della Santa Sede. Queste dimissioni rappresentano l’ennesimo strascico del gravissimo scandalo finanziario che ha coinvolto la piccola Arcidiocesi di Maribor (situata nel nord-est della Slovenia al confine con la Croazia e l’Ungheria, circa 350.000 fedeli) in bancarotta con un buco di circa 800 milioni di Euro. 

Mons. Stres paga il fatto di avere diretto il Consiglio economico della Diocesi (dal 2006 divenuta Arcidiocesi) nel periodo in cui era vescovo ausiliario, vale a dire dal 2000 al 2006, e di essere stato nel 2009 coadiutore dell’arcivescovo Mons. Franc Kramberger, dimissionato nel 2011 a causa di questo stesso scandalo; mons. Turnšek è stato invece vescovo coadiutore dal novembre 2009 al febbraio 2011, succedendo poi a Kramberger alla guida dell’Arcidiocesi stiriana. Quello avviato da Roma è stato quindi un repulisti in piena regola.

Questo scandalo è emblematico delle discutibili pratiche che certi settori della Chiesa hanno mutuato dal mondo economico e finanziario. Per le Chiese locali dei Paesi dell’ex Jugoslavia vi è poi la situazione specifica rappresentata dall’abbondante restituzione di beni che le erano stati sottratti dalle autorità comuniste nel secondo dopoguerra. Queste Chiese si sono all’improvviso arricchite di una notevole quantità di beni nonché di generosi finanziamenti dello Stato, erogati a titolo di risarcimento per i beni che non potevano essere restituiti, e nella loro gestione si sono spesso lasciate trascinare da una mentalità capitalistica diametralmente opposta ai principi cristiani.

Personaggio-chiave dello scandalo di Maribor è l’ex economo della Diocesi, il discutibile prete-manager mons. Mirko Krašovec, il quale ha deciso di gestire i beni affidatigli gettandosi a capofitto nel mondo della finanza e dell’imprenditoria. E’ stato così avviato un progetto imprenditoriale a dir poco megalomane, caratterizzato dalla fondazione di una banca, dalla costituzione di holding finanziarie e società immobiliari, dalle partecipazioni azionarie in un gran numero di società e, ciliegina sulla torta, dalla gestione di una società di telecomunicazioni che si occupava di Internet e di telefonia mobile, e che era proprietaria di un network televisivo via cavo nella cui offerta erano inclusi anche canali a luci rosse. 

La crisi economica mondiale, scelte finanziare sbagliate, e come spesso avviene in questi casi, spese faraoniche derivanti da uno stile di vita da nababbi interamente a carico delle aziende, hanno tuttavia provocato il crac. Le conseguenze sono state, e sono tuttora, gravissime: 65.000 fedeli cattolici sloveni hanno perduto i loro risparmi per avere in buona fede investito il proprio denaro nelle imprese di proprietà della Chiesa; numerose aziende slovene vantano crediti milionari inesigibili, mettendo così a rischio circa diecimila posti di lavoro (la sola società Steklarna Rogaška vanta nei confronti dell’Arcidiocesi un credito di 17 milioni di euro); banche di primo piano traballano, ad esempio la Nova Ljubljanska Banka e la Banka Celje sono esposte per circa 340 milioni di euro.

I beni della Chiesa nazionalizzati o espropriati dalle autorità comuniste jugoslave nel secondo dopoguerra (quasi sempre senza risarcimento, nonostante la legge lo prevedesse), erano per la quasi totalità rappresentati da terreni agricoli, edifici a uso abitativo o a scopo di riscuotere locazioni. Essi erano quindi destinati a uno sfruttamento a vantaggio dell’uomo - i campi davano i frutti della terra, le case e gli appartamenti venivano affittati per dare un’abitazione a chi ne aveva bisogno, e i proventi di tutto questo contribuivano al mantenimento delle strutture e delle attività della Chiesa. 

Oggi invece tutto è cambiato, nella gestione dei propri beni la Chiesa si è “aperta al mondo”, spesso lasciandosi attrarre dalle sue lusinghe e dai suoi discutibili strumenti, ritenuti più al passo con i tempi. Non si crede più nella Provvidenza del Signore, bensì in quella di Mammona, quindi contano di più i listini delle Borse che le offerte dei fedeli, e i beni non vengono più utilizzati a vantaggio dell’uomo, bensì sfruttati per attività speculative in ambito immobiliare e finanziario. Non pochi uomini di Chiesa si trovano più a loro agio nei Consigli di Amministrazione (regolarmente vestiti in giacca e cravatta, come mostrano alcune fotografie di mons. Krašovec, che non a caso molti giornali sloveni consideravano un businessman, ignorando che si trattava di un sacerdote) che in confessionale o sull’altare. Affidarsi a Mammona non è tuttavia un buon affare, e di conseguenza si moltiplicano i casi di ammanchi nelle casse e di fallimenti di istituzioni ecclesiastiche e di diocesi.

E’ avvenuto qualcosa di simile in Istria per il caso Daila. Se pensiamo ad esempio alle manovre della Diocesi di Parenzo-Pola sul cosiddetto “Bosco dei Frati” - vendite a prestanomi, manovre di “oliatura” politico-amministrativa per la sua trasformazione da terreno a uso agricolo ad area destinata a ospitare strutture di turismo di lusso, una sospetta quadruplicazione del valore dell’area in pochi anni - vediamo che anche in questo caso è stata all’opera una “finanza creativa” che è in netta contraddizione con i dettami del Vangelo e che alla Chiesa può portare solamente danni, sia dal punto di vista finanziario sia da quello dell’immagine. Il caso Daila si è concluso positivamente per la Santa Sede – il Tribunale Amministrativo Regionale istriano ha accolto il ricorso presentato dal Cardinale Segretario di Stato Bertone contro la nuova nazionalizzazione dei terreni di Daila deciso dal governo croato su richiesta del vescovo Milovan, e quindi essi sono tornati alla Diocesi, così che il nuovo vescovo Kutleša provvederà a restituirli ai benedettini dell’abbazia di Praglia nella misura prevista dagli accordi con la Santa Sede. 

Tuttavia anche questa vicenda ha provocato la caduta di teste eccellenti. Il vescovo Milovan è stato prima esautorato attraverso la nomina di un coadiutore con pieni poteri, e in seguito costretto alle dimissioni; inoltre è stato silurato il Nunzio Apostolico in Croazia, mons. Roberto Cassari, il quale, secondo quanto affermano ambienti diplomatici ed ecclesiali nella capitale croata, sarebbe stato escluso dalla Santa Sede anche dalla gestione di questa complessa questione, affidata al Consigliere di Nunziatura Mons. Mauro Lalli.

Nei Paesi della ex-Jugoslavia a maggioranza cattolica questa abbondanza di beni non ha portato ad alcun miglioramento delle strutture ecclesiali o del livello generale di vita del clero. Sebbene in Croazia, ad esempio, siano state ricostruite le chiese distrutte durante l’occupazione serba, in molti quartieri delle grandi città vi sono parrocchie ancora senza chiesa o centro pastorale, e le Sante Messe vengono ancora celebrate in chiese di fortuna ricavate da case e appartamenti acquistati dalle Diocesi, proprio come avveniva prima del ritorno alla democrazia. I sacerdoti attivi nelle parrocchie, che vivono a diretto contatto con i problemi quotidiani dei fedeli, non vedono quasi nulla di tutto questo fiume di denaro, e non pochi di loro affermano che la loro condizione di vita è perfino peggiore che ai tempi del comunismo.

In un quadro così desolante diventa molto attuale l’insistenza con la quale papa Francesco invita la Chiesa a uno stile di vita più sobrio e confacente al Vangelo. Non si tratta evidentemente di rigurgiti pauperistici o di rinuncia ai beni materiali che sono di aiuto allo svolgimento della missione della Chiesa, bensì della necessità di ritrovare, anche nella loro gestione, metodi che preservino la Chiesa stessa da megalomanie, affarismi e speculazioni - la già menzionata ‘provvidenza’ di Mammona, che presto o tardi porta alla rovina.