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LONDRA

Brexit, sei vie alternative per uscire dall'Ue. O restarci

Il 29 marzo doveva essere il giorno della Brexit. La premier Theresa May ha ottenuto una proroga al 22 maggio. Ed entro il 12 aprile (prima dell'inizio della campagna delle europee), il Parlamento deve decidere come uscire dall'Ue. Le alternative sono almeno sei, di cui una è la cancellazione del referendum.

Esteri 23_03_2019
Brexit, manifestazione a Westminster

Il 29 marzo doveva essere il giorno della Brexit. Con o senza accordo, quella era la scadenza: dal 30 il Regno Unito sarebbe stato fuori dall’Ue. E’ scritto in una legge britannica tuttora in vigore. La premier Theresa May, tuttavia, ha chiesto e ottenuto, giovedì, una proroga molto breve, perché un accordo non c’è ancora e quindi si rischia di arrivare ad un’uscita disordinata (che né Londra né Bruxelles vogliono). Sicché, previo voto parlamentare britannico che cancelli la legge attuale, la data sarà rinviata al 22 maggio, il giorno prima delle elezioni europee. E già dal 12 aprile, al massimo, Londra deve comunicare quale sarà il suo percorso. Tutto è ancora in gioco e l’attività parlamentare britannica sta diventando febbrile.

Cosa succede se, la settimana prossima, il Parlamento britannico boccia di nuovo le proposte di Theresa May su un’uscita concordata dall’Ue? Succede che “tutte le opzioni rimarranno aperte” fino al 12 aprile. Entro la quale il Regno Unito deve indicare con chiarezza quale sarà il suo percorso di uscita. O revocare ufficialmente l’articolo 50 (uscita dall’Ue) e cancellare la volontà popolare espressa il 2016. Se invece la settimana prossima la maggioranza parlamentare voterà per l’accordo di uscita “ordinata” proposto da Theresa May, allora il 22 maggio prossimo, il Regno Unito sarà anche ufficialmente fuori dall’Unione Europea. Perché il termine intermedio del 12 aprile? Perché entro l’11 aprile il Parlamento britannico dovrà decidere se indire o meno le elezioni europee sul territorio britannico. Potranno tenersi solo se il Regno Unito avrà deciso di rimanere nell’Ue. Se invece dovesse votare, non potrebbe più uscire, almeno fino alla fine della legislatura del Parlamento Europeo (dunque nei prossimi cinque anni). Perché se il Regno Unito eleggesse i suoi europarlamentari e poi dovesse uscire dall’Ue, decadrebbe l’intero Parlamento Europeo: sarebbe impossibile rifare tutti i conti per la ripartizione dei seggi senza i gruppi dei parlamentari eletti nei collegi britannici. Quindi entro il 12, certamente, sapremo il destino del Regno Unito, dentro o fuori.

L’accordo proposto da Theresa May, bocciato già due volte dal Parlamento, è impopolare soprattutto per la questione irlandese. Pur di mantenere una frontiera aperta fra Irlanda del Nord e Repubblica di Irlanda (che diventerà un confine esterno dell’Ue, a Brexit avvenuta), la May ha accettato di mantenere tutto il Regno Unito temporaneamente dentro l’unione doganale europea e di riconoscere una sorta di statuto speciale per l’Irlanda del Nord. Che verrebbe, a questo punto, separata di fatto dal Regno Unito e quasi unificata alla Repubblica di Irlanda. Contro questo provvedimento, gli Unionisti nordirlandesi, che coi loro 10 voti, reggono il governo, sono pronti a dar battaglia fino allo stremo, poiché verrebbe meno la loro ragion d’essere. Mentre una folta pattuglia di conservatori dissidenti, vota comunque contro. Perché, in modo più o meno dichiarato, sono contrari a un’uscita concordata e sono favorevoli a un’uscita “hard”, una riga tracciata sul passato europeo e un futuro libero tutto da ricostruire. Anche se non tutti i ribelli sono per un’uscita definitiva, tutti trovano umilianti i termini accettati da Theresa May.

Se il piano della premier dovesse essere ancora una volta respinto il Parlamento potrebbe votare altre sei opzioni alternative. Almeno una di queste dovrebbe riuscire ad ottenere una maggioranza abbastanza solida da presentare all’Ue un piano a nome del Regno Unito e non solo di una sua maggioranza temporanea e risicata. Queste opzioni saranno: revocare l’articolo 50 e cancellare la Brexit (opzione che la May stessa ha definito come un “tradimento della volontà degli elettori”), un nuovo referendum, una versione emendata dell’accordo della May a cui aggiungere la permanenza nell’unione doganale, un’altra versione emendata dell’accordo May a cui aggiungere la permanenza nell’unione doganale e l’accesso al Mercato Unico, un accordo di libero scambio con l’Ue, un’uscita non concordata (hard Brexit). La settimana scorsa, con due voti non vincolanti, la maggioranza parlamentare ha già espresso un netto “no” all’idea di una hard Brexit. E ha espresso un chiaro “sì” al rinvio della data di uscita. Quindi c’è già un’idea di come potrebbe votare il Parlamento nella settimana che verrà.

In un appello televisivo lanciato il mercoledì, la May ha accusato i parlamentari di aver affossato il suo piano, si è rammaricata del fatto che “un certo numero di colleghi ha sollevato preoccupazioni” sulle sue parole e “non era mia intenzione rendere ancor più difficile il loro difficile lavoro”. Il problema, adesso, per lei, sarà di convincere almeno tutti i Conservatori a votare per il suo piano. Perché se inizia il carosello dei voti sulle sei opzioni alternative, potrebbe perdere completamente il controllo della situazione.

Dall’altra parte della Manica, il presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, ha dichiarato che “tutto è possibile”, si dice contento per aver ottenuto il voto unanime dei 27 membri rimanenti dell’Ue per il rinvio della Brexit. Sostanzialmente, sostiene che ora sta ai britannici decidere sul loro futuro. Il ruolo che finora ha svolto, comunque, non è stato propriamente quello di creare un clima di fiducia reciproca. Secondo un sondaggio del Center for Europea Research della Queen Mary University, pubblicato in febbraio, il 58% degli inglesi ritiene che l’Ue sia stata troppo dura nei confronti del Regno Unito durante i negoziati. In particolar modo ha impressionato il tono di Donald Tusk, come quando ha parlato di “un posto speciale all’inferno” per chi ha voluto la Brexit senza avere un piano pronto.