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REFERENDUM

Brexit o Remain? Gli inglesi valutano i costi

Comunque vada, oggi è un giorno storico. Il referendum per cui si sta votando proprio in queste ore in Gran Bretagna è per decidere se restare nell’Unione Europea o uscire. Le campagne per la Brexit e per il Remain valutano costi e benefici economici della loro scelta. Vediamo quali sono.

Economia 23_06_2016
Brexit

Comunque vada, oggi è un giorno storico. Il referendum per cui si sta votando proprio in queste ore in Gran Bretagna è infatti il primo nel suo genere: si decide se restare nell’Unione o uscire e si svolge in una delle prime potenze economiche mondiali. Certamente crea un precedente che lascerà il segno. La campagna è stata caratterizzata da una violenza senza precedenti, insanguinata dall’omicidio della parlamentare laburista Jo Cox. Ciascuno dei due schieramenti, per la Brexit e per il Remain, ritiene che la propria causa sia per una maggior libertà del Regno Unito. Ciascuno dei due accusa l’altro di poter provocare danni irreversibili all’economia britannica. E’ soprattutto in questa sfera pratica, economica, che lo scontro è stato serio e gli argomenti forti. E’ bene concentrarsi su questo aspetto, dunque, senza prendere posizione ma esaminando gli argomenti di entrambi gli schieramenti.

A favore della tesi del Remain, c'è la “prova del 9” dell’andamento delle Borse, che lanciano segnali chiari a sfavore della Brexit. Ogni volta che il fronte favorevole all’uscita prende forza, le Borse crollano. I mercati sono comprensibilmente preoccupati da un cambiamento drastico dello status quo. La prima causa di questa preoccupazione è la possibilità che vengano ripristinate barriere tariffarie fra il ricco mercato britannico e il più vasto Mercato Unico europeo, che acquista più della metà delle esportazioni del Regno Unito. L’economia asiatica è fra le prime a investire a Londra, proprio perché unisce le condizioni di bassa tassazione e affidabilità all’accesso nel più grande spazio economico europeo. Sono 9 miliardi di dollari quelli investiti dalle aziende giapponesi a Londra. Sono 70mila le persone a cui un’azienda indiana quale la Tata dà lavoro in territorio britannico. Cina e Hong Kong sono fra i maggiori investitori in assoluto. In caso di Brexit, tutta questa ricchezza potrebbe emigrare altrove in Europa, perché non vi sarebbe altrettanta garanzia di poter importare i componenti ed esportare i prodotti finiti nel resto del mercato europeo.

I sostenitori della Brexit ritengono che i costi della membership nell'Ue siano comunque troppo alti. Londra è un contributore netto del bilancio europeo, ogni anno versa 8 miliardi di sterline (al netto di ciò che viene restituito) alle casse comuni europee. Per i sostenitori del Ramain, il costo vale comunque la candela, perché in caso di uscita la Gran Bretagna subirebbe un costo occulto ancora maggiore, dato non solo dalla fuga di capitali, ma soprattutto dalla svalutazione della sterlina.

A queste incertezze sul futuro del mercato britannico, infatti, si aggiunge anche quella sulla moneta. Come ha fatto presente il finanziere George Soros, in un suo editoriale sul quotidiano britannico The Guardian, che si tratta di “pura fantasia” credere di non subire conseguenze economiche personali in caso di eventuale uscita. La stima che il finanziere cita, tratta dalla stessa Banca d’Inghilterra, prevede una perdita netta di reddito per ogni nucleo familiare, da 3000 a 5000 sterline all’anno. La sterlina potrebbe essere svalutata del 15 o anche 20% rispetto al suo valore attuale… “dal suo attuale tasso di cambio di 1,46 dollari a meno di 1,15. Se la sterlina dovesse cadere a questo livello, ironicamente una sterlina varrebbe tanto quanto un euro, un modo per entrare nell’euro che nessun britannico vorrebbe”. Soros stesso guadagnò una somma cospicua dalla svalutazione della sterlina del 1992, come ricorda lui stesso nell’editoriale. Ma ha sufficiente onestà intellettuale per ricordare anche come tale svalutazione ebbe, alla lunga, un impatto positivo sull’economia britannica. Il finanziere ritiene che quelle condizioni non siano più ripetibili, nelle condizioni attuali. I sostenitori della Brexit ritengono che lo siano. La storia giudicherà chi ha ragione.

Il più razionale e il meno nazionalista fra i sostenitori dell’uscita, il conservatore Boris Johnson (ex sindaco di Londra), ribalta l’argomento della campagna per il Remain. Ritiene, infatti, che fuori dall’Europa la Gran Bretagna potrebbe migliorare (e non peggiorare) la sua posizione nei mercati mondiali. “Quel che il governo vuole da noi è che si resti chiusi in un regime produttore di regole quale è il Mercato Unico e di restare soggetti a 2500 nuove regole emesse dall’Ue ogni anno. Quello che noi vogliamo per la Gran Bretagna è di avere, come tanti altri paesi, un commercio libero con i paesi del Mercato Unico pur senza essere soggetti al vasto e politicamente motivato impero della legge europea”. Dati alla mano, dichiara che: “Le esportazioni britanniche sono il 22% più basse alla fine del ventennio successivo al 1992 (al Trattato di Maastricht, ndr), rispetto al ritmo di crescita che avevano registrato nei 20 anni precedenti al 1992”. Lo stesso Johnson sottolinea come, in 42 anni di adesione, prima alla Cee e poi all’Ue, Londra non sia mai riuscita a stringere accordi di libero scambio con Cina, India, Australia o con gli stessi Stati Uniti. E questo a causa di resistenze politiche e sindacali dei paesi membri continentali.

La Gran Bretagna è comunque membro della World Trade Organization (Wto), che azzera o quantomeno riduce le tariffe protezionistiche sulla maggioranza dei settori produttivi e dei servizi. Ma per migliaia di prodotti, alcuni dei quali strategici come i motori per i mezzi di terra e l’industria aerea, l’agricoltura e il cibo, tornerebbero i dazi. Se la Gran Bretagna riuscisse a negoziare un nuovo accordo con l’Ue, potrebbe ottenere condizioni di libero scambio come la Norvegia e la Svizzera, che non sono paesi membri, ma possono esportare in tutta Europa, senza pagare dazi, la maggioranza dei loro prodotti. In questo caso rimarrebbero tariffe protezionistiche sull’agricoltura e poco altro. Ma in caso di Brexit una delle contromisure minacciate dalla Commissione europea è proprio quella di non negoziare altri accordi.

Per l’ex primo cittadino londinese, insomma, non ci sono ragioni economiche per il Remain. Ci sono solo ragioni politiche, cioè la volontà di assimilare la Gran Bretagna nel progetto di creazione di uno Stato centrale europeo. “La verità è che non siamo noi ad esser cambiati. E’ l’Ue che è cambiata fino a diventare irriconoscibile. E continuare a dire che l’Ue è di natura economica sarebbe come credere che la principale ragion d’essere della Mafia siano le olive e l’edilizia”. Con il suo ultimo accordo raggiunto con Bruxelles, il premier (anch’egli conservatore) David Cameron ha ottenuto di escludere la Gran Bretagna dal principio della “Unione sempre più stretta”. Dunque non c’è più, nemmeno sulla carta, il pericolo di una “annessione” britannica a Bruxelles. Ma Johnson ribatte che il nemico scacciato dalla porta possa rientrare dalla finestra ed elenca almeno 45 settori, fra cui l’applicazione dei diritti umani, in cui l’Ue sta sottraendo sovranità al Regno Unito.

C’è da dire, tuttavia, che la reazione dei mercati significa pur qualcosa. E che, almeno nel breve periodo, lo shock economico sarebbe forte. La campagna del Remain punta a scongiurare questi effetti immediati. Quella della Brexit ragiona sul lungo periodo. E non è garantito che le previsioni siano giuste. La partita è tutta da giocare: i sondaggi danno i due campi testa-a-testa. Domani vedremo cosa avranno deciso gli inglesi.