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UN FILM GIA' VISTO

Berlusconi contro Prodi, gerontocrati a confronto

Le elezioni del 2018 sono un film già visto, quello degli anni Novanta. Anche se incandidabile, è sempre Berlusconi che dirige il centrodestra da dietro le quinte. Analogo ruolo lo svolge anche Romano Prodi nel centrosinistra.

Politica 19_11_2017
Berlusconi e Prodi

Seguire il dibattito politico di questi mesi equivale a ricatapultarsi in un film già visto, quello degli anni Novanta, quando il bipolarismo ci aveva consegnato un dualismo tra due leader: Silvio Berlusconi e Romano Prodi.

A distanza di oltre 23 anni dalla prima campagna elettorale della cosiddetta “seconda Repubblica”, nata dalle ceneri di Tangentopoli, il centrodestra continua ad essere guidato da un uomo che a 81 anni dà ancora le carte ad alleati e avversari e attende fiducioso una riabilitazione da Strasburgo per potersi nuovamente candidare a Palazzo Chigi. Alla guida del centrosinistra, ufficialmente un ex sindaco ed ex premier che, dopo aver detto, un anno fa, che avrebbe lasciato la politica in caso di sconfitta a un referendum costituzionale da lui proposto, ha cambiato idea e si ostina a rimanere in pista, pur rendendosi conto di non riuscire più a riaggregare il suo schieramento. E allora ecco che per salvare il centrosinistra dalla dissoluzione un altro politico non di primo pelo, Piero Fassino, incaricato dal suddetto Matteo Renzi di trattare con le altre forze di sinistra, cala l’asso di Romano Prodi, lusingato come non mai, corteggiato come non mai.

Il diretto interessato ribadisce di non voler rientrare in politica ma offre la sua disponibilità a dare consigli gratuiti, a ispirare una manovra di ricomposizione di quello che fu l’Ulivo, un disegno di riavvicinamento tra le anime disperse di uno schieramento che, con il Consultellum, rischia di soccombere in tutti i collegi uninominali e quindi di consegnare la guida del prossimo esecutivo al centrodestra o, peggio ancora, di gettare il Paese nel caos dell’ingovernabilità.

Ma sul proscenio desolante della politica italiana non ci sono soltanto due protagonisti della politica degli anni Novanta. Anche tra chi sgomita per ritagliarsi uno spazio residuale al centro si notano figure non proprio nuove, da Ciriaco De Mita a Clemente Mastella, da Pierferdinando Casini a Lorenzo Cesa, senza dimenticare, in questo caso nel centrodestra o nel centrosinistra, gli intramontabili come Umberto Bossi o Roberto Formigoni, Massimo D’Alema o Pierluigi Bersani, che, nonostante i guai giudiziari, aspirano a rientrare in Parlamento anche al prossimo giro.

Si tratta, quindi, di un andazzo generale e trasversale ai vari schieramenti. Chiamarlo gerontocrazia può risultare perfino riduttivo. Siamo di fronte a una preoccupante involuzione, a un progressivo avvitamento della democrazia su se stessa. Le cause di questo fenomeno sono di natura culturale e riguardano in primo luogo la subalternità crescente della politica al potere finanziario e a quello giudiziario. La permanenza in campo di vecchi arnesi della politica, depositari di tanti segreti e con vari scheletri nell’armadio, è funzionale alla conservazione dello status quo e alla chiusura strategica ad ogni prospettiva di cambiamento che possa rendere la politica più autonoma, più autorevole e più attraente per nuove leve non compromesse.

La seconda spiegazione risiede nella assoluta mancanza di democrazia interna ai partiti, che selezionano i leader e i quadri dirigenti secondo regole verticistiche e senza coinvolgere più di tanto l’elettorato, con l’inevitabile conseguenza di diventare sempre più autoreferenziali. Fa dunque rabbrividire la prospettiva di chiedere ai nuovi elettori che hanno compiuto da poco o che compiranno 18 anni un voto per chi occupa la scena politica da vari decenni. Non è un bel segnale per le nuove generazioni, non lo è neppure per l’Europa, che in questo modo riceve la conferma di un’Italia vecchia e incapace di rinnovare le sue istituzioni. In nessuno Stato europeo, se si eccettua il fenomeno Merkel, si registra una conservazione così stantia dei vertici dei governi.

Vent’anni, quindi, sembrano essere trascorsi invano e nulla di nuovo si intravvede all’orizzonte. Peraltro con il Rosatellum il rischio che dalle urne non escano indicazioni chiare sul futuro del Paese alimenta la sfiducia nell’opinione pubblica, e il probabile stallo post-elettorale, forse anche voluto, appare alimentare in modo perverso la prospettiva di una invincibile restaurazione.