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STATALISMO

Altro che quote TV: il cinema italiano è fallito

L'Istituto Bruno Leoni combatte contro l'imposizione di quote di film nazionali da trasmettere nelle Tv nostrane. È una lotta contro i mulini a vento, perché in Italia il cinema è fallimentare dal '68 in poi e si fa pagare dal contribuente.

Cinema e tv 13_11_2013
Cinecittà

Il benemerito Istituto Bruno Leoni, think tank economico, nella sua newsletter rimanda a un dettagliatissimo articolo sull’imposizione di quote di film italiani alle televisioni nostrane. La normativa è in verità europea, direttiva «Televisione senza frontiere» del 1989, recepita nel nostro ordinamento all’art. 44 del Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici (Tusmar). Non intendiamo qui addentrarci nello specifico delle norme e delle cifre, né fare i moralisti sul protezionismo cinematografico: lo fanno tutti.

Il punto che interessa il think tank di cui sopra, di impostazione liberista, è il vulnus inferto al principio di libera concorrenza, che specialmente in un settore come il cinema dovrebbe essere sovrana. Infatti, almeno sui gusti dello spettatore gli Stati dovrebbero astenersi dal metter bocca: uno paga per vedere un bel film e non gli interessa la nazionalità di provenienza. La concorrenza, dunque, costringerebbe tutti i cineasti a fare bei film e il risultato finale sarebbe non solo nell’interesse dello spettatore ma anche nel loro, perché più bei film ci sono in circolazione più lo spettatore è invogliato ad andare al cinema. Non solo. Dice giustamente l’Ibl che, se proprio si vuol fare del protezionismo nazionale, questo dovrebbe essere a carico del cosiddetto «servizio pubblico», cioè la Rai, che percepisce il canone-tassa obbligatoria appunto per scopi (istituzionali, si badi) di interesse patrio. Invece, il protezionismo danneggia le televisioni private, che campano di sola pubblicità e possono battere la concorrenza solo attirando spettatori con film appunto attraenti, per i quali non c’è nazionalità che tenga.

Ora, il problema, non solo italiano, è questo: sconfiggere Hollywood è praticamente impossibile. Dagli Usa proviene un’offerta che non bada a spese di produzione (certi film americani impiegano centinaia di milioni di dollari), ma anche film cosiddetti «di qualità». Mentre l’Europa, e massime l’Italia, «maestra di cultura» lo è stata prima del Sessantotto, poi non solo ha smesso di esserlo ma si è ridotta a riceverla, la cultura, dagli americani. Compresa la filosofia, attualmente imperante, del politicamente corretto. E ormai siamo al plagio vero e proprio.

Il cinema italiano, dati i suoi mezzi scarsissimi, si era distinto per la creatività: neorealismo, peplum, spaghetti-western. Poi, col Sessantotto, la cappa marxista calò uniforme sulle scuole di regia e sui festival. E da allora l’industria cinematografica italiana ha campato di «aiuti di Stato», cioè dei soldi del contribuente. Il quale, così, pagava il cinema due volte, perché nelle sale guardava, a spese sue, i film americani. O quelli che ci facevano le scarpe in quanto a creatività, come il genere kung-fu di Hong Kong.

Che cosa ha prodotto, il cinema italiano, dal Sessantotto in poi? Commedie più o meno scollacciate, drammi tre-stanze-tinello, famiglia in crisi, omosessuali in crisi, adolescenti in crisi. O l’ennesima pellicola di «denuncia», ovviamente a senso (politico) unico. Per vedere la gente affollare le sale per un film italiano si deve ormai ricorrere al comico Checco Zalone, che almeno fa ridere senza costringere la gente a «pensare» (ovviamente, a senso unico).

L’Ibl combatte, dunque, contro i mulini a vento, perché, in questo campo, la concorrenza è, sì, la panacea, ma non in Italia. Qui da noi, finché un film potrà spremere la mucca statale e fregiarsi della dicitura «di interesse artistico e culturale», non avrà importanza se sarà un flop al botteghino. Tanto, paga Pantalone. La salvezza del cinema italiano comincerà quando lo Stato dirà al postulante: vuoi fare film anziché il calzolaio? arrangiati. Allora molti «artisti» saranno costretti a cambiare mestiere o a dirottare le loro competenze nel settore porno, che non conosce crisi (e senza finanziamenti statali). I pochi rimasti saranno costretti a spremersi le meningi e a produrre, finalmente, bei film, guidati solo dal portafogli dello spettatore, loro unico signore e padrone.