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EUTANASIA DI STATO

Alfie morirà come Charlie. Il padre: "Non ci arrendiamo"

Il bambino vive nonostante i pronostici medici e interagisce pur sedato. Ma per il giudice: "Ha bisogno di pace", quindi va fatto morire soffocato. Ancora una volta, come avvenuto con Charlie e Isaiah, una “qualità di vita” lontana da quella che la cultura edonista ha stabilito, è ritenuta inaccettabile. “Capite che mio figlio è stato condannato a morte?", ha dichiarato il padre: "Aiutateci così".

Vita e bioetica 22_02_2018

C’è un convincimento diabolico nelle parole del giudice dell’Alta Corte, Anthony Hayden, il quale martedì ha autorizzato il distacco del supporto che aiuta il piccolo Alfie Evans a rimanere in vita, affermando che il bimbo di 21 mesi  “ha bisogno di pace, quiete e privacy, in modo che possa concludere la sua vita come l’ha vissuta, con dignità”, laddove la parola “dignità” va intesa secondo l’ormai consolidato vocabolario eugenetico. Un vocabolario che è pronto a edulcorare e giustificare anche il più orrendo dei crimini contro l’innocente ed è condiviso da chi comanda all’Alder Hey Hospital di Liverpool, che ha definito “scortese, ingiusto e disumano” il proseguimento delle cure di base. L’eventualità che la ventilazione venga staccata domani dovrebbe essere scongiurata dall’appello, a questo punto molto probabile, dopo che ieri la raccolta fondi lanciata sulla pagina Facebook dell’Alfie’s Army ha superato – nel giro di poche ore – la quota di diecimila sterline necessaria per coprire le spese legali (grazie a tante piccole donazioni e a quella cospicua di Bill Kenwright, presidente dell’Everton).

Medici e giustizia ordinaria sono perciò nuovamente uniti nel dire, senza troppi giri di parole, che un bambino con una grave disabilità non è degno di vivere. Come già accaduto a Charlie Gard - ucciso prima che potesse compiere un anno, alla fine di una feroce battaglia legale condotta dal Great Ormond Street Hospital di Londra contro la famiglia - anche Alfie, affetto da una malattia neurologica degenerativa o da un disordine metabolico (ancora privo, quindi, di una diagnosi completa), è di fatto ostaggio di un ospedale britannico. Anche in questo caso, i genitori, la ventenne Kate e il ventunenne Tom, vorrebbero portare il figlio in una struttura all’estero, conducendolo in Italia o in Germania per continuare le cure e ottenere possibilmente una diagnosi. Ma non gli è consentito. E anche questa volta migliaia di persone si sono mobilitate per sostenere la famiglia nella difesa del diritto alla vita di Alfie. Con molti, fuori dall’ospedale o dal tribunale, che hanno indossato magliette con la scritta: “Liberate Alfie”.

Il padre, dopo essere scoppiato in lacrime al momento della lettura del verdetto, appena fuori dal tribunale si è lasciato andare a toccanti dichiarazioni. Ha affermato che la battaglia per tenere in vita Alfie “non è finita. Questo è solo l’inizio”. E, pur nel dolore, ha detto con estrema lucidità: “Capite che mio figlio è stato condannato con una sentenza di morte da eseguire tra due giorni? Io non sto piangendo perché so quanto si sbagliano e so quanto è forte il mio bambino. […] Io non mi arrenderò, mio figlio non si arrenderà”. Mamma Kate, da parte sua, ha lasciato a un certo punto l’aula perché visibilmente sconvolta da quanto stava accadendo, mentre alcuni familiari cercavano di consolarla, rassicurandola che “non è la fine”, perché Alfie è ancora in vita.

Già, il bambino vive ancora nonostante i medici ne avessero pronosticato la morte imminente a fine dicembre 2016: sono passati 14 mesi da allora e Alfie vive. Ma per i medici dell’Alder Hey, che hanno negato al bambino la tracheostomia proprio perché non lo giudicavano più in grado né degno di vivere, il problema sta proprio qui: Alfie vive secondo una “qualità della vita” lontana dagli standard che la cultura dominante ha stabilito e fuori da questa “qualità della vita” - ragiona tale cultura - non c’è libertà, non c’è umanità che tenga. Per questo l’ospedale, che ha diffuso menzogne fin dall’inizio dell’iter legale per ottenere il distacco della ventilazione, arrivando a proporre alla famiglia un mediatore noto per essere un attivista pro-eutanasia (a cui i genitori si sono chiaramente opposti), rilascia simili dichiarazioni: “Sfortunatamente, certe volte ci sono situazioni come questa in cui  non è possibile raggiungere un accordo e la squadra di cura del piccolo è convinta che un trattamento attivo e continuativo non sia nel miglior interesse [grassetto nostro, ndr] del bambino”. Stesso concetto sostenuto dal giudice nell’autorizzare il distacco della ventilazione.

Ancora una volta, come avvenuto con Charlie e come a fine gennaio è stato deciso in primo grado riguardo al piccolo Isaiah, viene avanzata un’applicazione perversa del criterio del “miglior interesse”, che nel Regno Unito è sempre più inteso come un interesse a morire del paziente, in pratica una sua condanna a morte quando avrebbe bisogno di un aiuto a cibarsi, idratarsi o respirare. Roberta Spola ha spiegato su questo quotidiano (vedi qui e qui) dove sta portando il “miglior interesse”, unito a un protocollo approntato a fine anni ‘90, il Liverpool Care Pathway, e rielaborato nelle linee guida dell’NHS (il servizio sanitario britannico): inizialmente presentato come accompagnamento alla morte dei malati di cancro in fase terminale, ha rivelato presto la sua portata eutanasica estendendosi progressivamente a tutti i pazienti ritenuti in fin di vita, a coloro affetti da patologie invalidanti, ai giovani, ai bambini, ai neonati disabili.

Questa cultura eugenetica si è talmente radicata oltremanica (e va sempre più diffondendosi anche nel nostro Paese, dove Cappato e compagni vengono considerati benefattori dell’umanità) che chi ha seguito la vicenda di Charlie Gard può facilmente ravvisare, nelle parole di oggi del giudice Hayden e dell’Alder Hey Hospital, gli stessi toni macabri usati nel 2017 dal Gosh, da Lady Hale della Corte Suprema, dal giudice Francis, eccetera, nell’opporsi accanitamente alla salvaguardia della vita di Charlie. Alfie, finora, è andato incontro alla stessa condanna di medici e giudici che hanno tradito la loro vocazione, veicolano idee disperanti e non sanno vedere oltre protocolli e procedure che sviliscono la dignità incommensurabile di ogni vita umana. Ma la battaglia non è finita e va sostenuta con l’impegno di tutti e la nostra preghiera.