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RELATIVISMO E VOLEMOSEBBENE DELLA FALSA INTEGRAZIONE

Adib e gli altri:l'inganno dei mediatori culturali

L'Italia si indigna per le parole oscene di Adib Jee, il mediatore culturale che ha giustificato lo stupro di Rimini. Ma la sua affermazione svela il distruttivo concetto di integrazione, portato avanti da uno stuolo di autoaffermati mediatori culturali proliferato con gli sbarchi ma non ancora normato: stranieri, senza competenze sulla cultura italiana e animati dal solito relativismo ideologico. Invece la mediazione culturale vera presuppone un dialogo senza sconti sulle differenze e un annuncio della verità. Parla l'esperta che non si è adeguata al perbenismo.

Libertà religiosa 01_09_2017

Lui si chiama Abid Jee ed è il mediatore culturale, si fa per dire, finito nell’occhio del ciclone per aver pronunciato questa frase choc a proposito della donna polacca stuprata da branco di Rimini: “All’inizio è peggio, poi la donna si calma ed è un rapporto normale”. E’ lui il nuovo mostro mediatico sbattuto sui giornali per segnare la rassicurante diversità, quella degli immigrati buoni e rispettosi che si deve per forza imporre come vulgata. Infatti la cooperativa che lo aveva assunto come mediatore culturale, si fa per dire, adesso sta correndo ai ripari: prima sospendendolo in vista di un’indagine interna, licenziarlo in tronco sarebbe sembrato troppo nei confronti di un immigrato. E in secondo luogo rassicurando la Prefettura circa le buone intenzioni della coop che, assieme ad altre, è a Bologna una delle realtà che hanno vinto il bando Sprar emesso dalla Prefettura.

Agli incauti leoni da tastiera è bastato così accontentarsi di vedere il “mostro” punito, per rassicurarsi. Ma quanti si sono interrogati sul perché un mediatore culturale, dunque un professionista dell’integrazione e del dialogo, sente il bisogno di pronunciare parole senza senno che non solo offendono le donne, ma tutto il genere umano? Non è forse che la professione di mediatore culturale abbisogni di un giro di vite? In questi anni la politica degli sbarchi forsennati sul suolo italiano ha contribuito a implementare e a far crescere una serie di mestieri che fino ad alcuni anni fa erano relegati ai margini, magari nelle carceri o nei tribunali o presso i servizi sociali. Invece da Mare Nostrum in poi non esiste oggi cooperativa vincitrice di bandi per richiedenti asilo che non dia lavoro ad uno stuolo di autoaffermati mediatori culturali. E quando una professione cresce repentinamente senza regole né criteri di assunzione selettivi, ecco che il far west è dietro l’angolo con conseguente business. Viene così spontanea la domanda: quanti sono in realtà gli Abid Jee nascosti in tutt’Italia che sono impreparati e per nulla adatti ad affrontare l’avventura, impossibile, ma necessaria direbbe Benedetto XVI, del dialogo e dell’integrazione con le altre culture, quella musulmana in primis?

Alla domanda è difficile rispondere perché, anzitutto, non esiste ancora una legge nazionale che istituendo un albo nazionale dei mediatori culturali, disciplini la professione. Basti pensare che la proposta di legge ad hoc del senatore Di Biagio (allora Pdl) nel 2013 giace ancora nei cassetti di palazzo Madama. Così le Regioni e i Comuni si attrezzano come possono con bandi e graduatorie regionali che però lasciano il tempo che trovano e soprattutto non sono uniformi. A Roma ad esempio per essere mediatore culturale bisogna essere esclusivamente cittadino straniero, il che fa capire bene che cosa si intenda per mediazione culturale: un dialogo unilaterale volto soltanto a comprendere che cosa l’ospite stia dicendo e non a informarlo di chi è chi lo accoglie. In altre regioni le maglie per l’iscrizione sono più o meno uguali, mentre parallelamente le Università si stanno attrezzando con master e corsi specialistici per gli studenti di materie giuridiche o linguistiche. Ma la grande differenza è questa: chi intende la mediazione culturale come una mera prestazione di un servizio, soprattutto di traduzione linguistica e chi invece, mettendosi in gioco è disposto a fare il percorso del dialogo partendo da un’identità forte che non è disposto a barattare annacquata nel buonismo e nel perbenismo che in fondo, le culture sono tutte uguali.

Sara Manzardo è una giovane che si sta specializzando in mediazione culturale e questa differenza di approccio ce l’ha ben chiara. Nei giorni scorsi su Facebook ha detto una verità scomoda: “La maggior parte delle persone che si autodefiniscono "mediatori culturali", in realtà non lo sono. Sono stranieri che conoscono l'italiano o radical chic che si improvvisano esperti di qualcosa che comunque non si avvicina né alla mediazione né alla cultura”. E’ a lei che chiediamo anzitutto che cos’è la mediazione culturale e che cosa offre attualmente il mercato.

Mediatore linguistico o culturale?

Questo è il primo scoglio. Bisogna partire dal fatto che se c’è bisogno di un mediatore, ci devono due essere due parti in conflitto. Il nostro ruolo è quello di facilitare la convivenza tra queste due parti per far sì che non ci sia un dialogo che annulli le identità di ciascuno dove io vinco e tu vinci. In questo senso la mediazione culturale è l’opposto del relativismo culturale in cui siamo immersi perché la logica multiculturalista appiattisce, invece lo scopo del mediatore è aiutare a raggiungere la verità sulle cose.

Sfida improba.

Che si affronta partendo dal presupposto che non si possono raggiungere dei risultati immediati. Si ha di fronte un’identità e una cultura che sono in contrasto con la nostra. Il punto non è imporre la nostra, ma offrire criteri per la comprensione della realtà e dunque della verità. Invece quel mediatore culturale del caso di Rimini ha dimostrato di non conoscere affatto la cultura di approdo, ma ha inteso il suo ruolo come un’imposizione della sua, di cultura.

Sembra di intravedere un pressapochismo nelle scelte e negli obiettivi…

Io me ne sono accorta quando, entrando in contatto con diverse cooperative della mia zona, ci si concentrava esclusivamente sullo scoglio linguistico. I mediatori sono visti principalmente come dei traduttori, soprattutto delle lingue africane. Sono le stesse coop che lo chiedono, vuoi per scarsità di visione, vuoi perché puntano solo a gestire l’emergenza. “Non abbiamo bisogno di questi discorsi sulla cultura, a noi servono traduttori per i bisogni primari”. E’ una mancanza di sensibilità che poi da i frutti che vediamo, cioè una inesistente integrazione.

Eppure comuni e regioni si stanno dando da fare per regolamentare la materia.

Ma sempre nell’ottica della mancanza di sensibilità. Se il Comune di Roma apre l’albo dei mediatori culturali solo agli stranieri vuol dire che non interessa che gli immigrati, siano essi richiedenti asilo o migranti economici, conoscano e comprendano la cultura d’approdo. Il risultato è che l’aspetto culturale viene affrontato semplicisticamente così: “Io ho la mia cultura e tu la tua. Pari siamo”. Invece questo è un grande inganno. La mediazione culturale sbagliata ha portato al relativismo in campo culturale.

Una doccia fredda sul multiculturalismo imperante.

Il Multiculturalismo ha fallito perché è la fotografia di culture che vivono una accanto all’altra senza comunicare tra loro. Ci si ghettizza a vicenda e non c’è un incontro vero e proprio. Bisogna dire la verità e cioè che il modello assimilazionista produce ghetti: dire siamo tutti cittadini, siamo tutti insieme è fuorviane perché significa accettare senza filtri la cultura e l’identità che vi sta dietro, anche se in queste non tutto va bene. L’esempio della religione è lampante.

Perché?

Perché si tende, anche in ambito della mediazione a dire: ci sono cose simili, noi lo chiamiamo Dio, voi Allah, l’importante è che non ci pestiamo i piedi e che ci teniamo la nostra religione come fatto privato e personale. Le nostre strategie di accoglienza ci hanno portato a fare finta di nulla sulle grandi differenze che ci sono tra le religioni, relegandole a semplici opinioni, così si soccombe.

Facciamo un esempio di un dialogo invece identitario. Ipotizziamo che si debba trovare di fronte in mediazione un gruppo di musulmani che sostengono la legittimità della poligamia. Che cosa farebbe?

Anzitutto quando ci sono due opinioni diverse il punto di scontro va detto, non va nascosto. Trovare il punto di disaccordo deve essere il riconoscimento fondamentale perché riconosco che l’opinione dell’altro va a intaccare la mia integrità morale. In quel momento io non posso dire: vabbè è la tua opinione, ma è necessaria sempre la verità nella carità. Bisogna riuscire a dire il proprio punto di vista, spiegare perché, esprimere all’altro i propri punti di vista. Invece noi stiamo zitti.

Il punto di scontro è un passaggio fondamentale. Quindi è sbagliato pensare che il punto di disaccordo sia foriero di guai o ferite?

Mi è capitato di vedere come noi facciamo molta fatica a dire a un musulmano che stiamo andando a messa, ci sono mille retaggi che ci frenano. Invece a me è successa una cosa significativa.

Cosa?

Ero in mediazione con un’insegnante di italiano. Ad un certo punto però il mio tempo era finito. Dissi che dovevo andare a fare un’ora di Adorazione Eucaristica. Ebbene: mi hanno chiesto che cosa significava. Ho spiegato loro e hanno capito che stavo andando a pregare. Pensavo che avrebbero fatto una faccia schifata, invece ho avuto da loro un segno di approvazione. Io invece mi facevo dei problemi. Il punto di scontro ha aperto loro qualche cosa sulla nostra identità.

Sembra che la sua magna charta sia il discorso di Ratisbona…

Dice poco! Stavo leggendo un libro che racconta di uno scambio epistolare tra due apologeti, un musulmano e un cristiano nel periodo abbasside. Si tratta di un dialogo teologico e la cosa che mi ha colpito è che i due autori si sono “scannati” dal punto di vista dei contenuti perché erano in totale disaccordo sull’origine divina dell’Islam, ma il modo in cui lo hanno fatto è quello di far avere all’altro la propria esperienza perché la cosa che sta a cuore di più è il volere che l’altro raggiunga la Verità. L’obiettivo del dialogo è aiutare l’altro a raggiungere la verità e capire le incongruenze e i suoi errori. Il dialogo è un aiuto, non un annacquamento.

Non ha paura che la accusino di evangelizzare?

L’evangelizzazione funziona se c’è la predisposizione dell’altro, non andiamo a convertire con la spada, la Chiesa dice che il dialogo deve avere un annuncio, non è un dire parole e basta. Se noi come presupposto diciamo che c’è una verità che è soggiacente a questa visione della realtà vuol dire che riconosciamo che c’è una creaturalità che ci accomuna, è questo l’annuncio. I frutti di chi ha voluto fare dialogo senza dire niente hanno creato solo confusione e ora sono disastrosi. Ci sono tanti esempi di cristiani e musulmani che dialogano in questo modo.

Viene in mente San Francesco col sultano.

Ad esempio!